Il Discorso Maschile e lo Stupro

Pubblichiamo un contributo al femminile sul tema della violenza sulle donne, a cura di Lea Melandri. Le ripetute vicende di stupro che hanno accompagnato la cronaca delle ultime settimane, non a caso amplificate dai media in corrispondenza dell’approvazione del Pacchetto Sicurezza, hanno evidenziato un discorso pubblico che storce e consegna un discorso tutto al maschile, dove i mezzi di informazione non hanno mostrato il minimo interesse nell’interrogare le dirette interessate (e vittime) di questi crimini così drammaticamente quotidiani: le donne.

"Una violenza dalle molte facce"
di Lea Melandri

Negli stessi giorni in cui lo stupro avvenuto a Guidonia veniva gridato a lettere cubitali sulle prime pagine dei quotidiani, passavano in sottofondo, come ‘brevi di cronaca’, violenze maschili meno spettacolari, ma soprattutto meno dicibili: una donna maltrattata e costretta dal marito a prostituirsi, due bambine violentate per anni dallo zio materno, una figlia insidiata dal padre, un uomo che uccide la moglie e la sorella perché “non gli davano più soldi”.

Nel primo caso, si tratta di un’aggressione che cade in un contesto sociale che sembra fatto apposta per provocarla e per farne un uso distorto -una città simile alle periferie urbane degradate, ostilità crescente della popolazione locale contro gli immigrati, forze politiche interessate ad alimentare paura e insicurezza; negli altri casi, fa la sua comparsa una violenza più insidiosa, perché confusa con gli affetti famigliari, con i bisogni elementari della sopravvivenza, con la fiducia infantile nell’adulto, una ferita sopportata nella solitudine e nel silenzio, o addirittura coperta dai genitori.
A Guidonia c’erano tutti gli ingredienti per inscenare una sorta di ‘stupro etnico’, e per accendere odi già esistenti tra bande opposte di ‘guerrieri’: il branco dei romeni stupratori e le squadre di Forza Nuova pronte ad armarsi per difendere le “proprie” donne; l’umiliazione inflitta non solo a una donna, a cui si può sempre imputare l’avventatezza di essere uscita sola di notte, ma anche all’uomo che l’accompagnava, colpito nel suo ruolo virile di difensore.

A un atto di aggressione, imputabile a ‘invasori barbari, animaleschi’ -quali sono considerati oggi i romeni, ieri gli albanesi-, la politica, quasi unanime, ha risposto non a caso disponendosi in assetto di guerra, minacciando di assediare le strade, le piazze, i mezzi di trasporto, i luoghi pubblici, con tutti i “corpi di Stato”: poliziotti, militari, vigili dotati di pistola, ma anche, come si legge nell’intervista di Ignazio La Russa (Il Giornale 25.1.09), polizia penitenziaria, Forestale, Guardia di Finanza. La ripetitività della storia è tale che è difficile non vedere, in questa parata di scudi, divise, frecce appuntite, spasmi vendicatori, eretta a protezione di fragili corpi femminili, il piacere che gli uomini hanno sempre trovato nel farsi la guerra. Preda da catturare con l’insidia o vittima da proteggere, la donna è sempre quell’essere malriuscito che sta tra la natura e l’umano, risorsa e merce preziosa quando se ne può disporre, pericolo e calamità quando passa in mano di altri.

Ma sono poi così lontani i due scenari della violenza maschile, quello che di tanto in tanto occupa vistosamente lo spazio pubblico, riaccende la curiosità morbosa dell’annoiato spettatore televisivo, permette ai contendenti della politica di farsi grintosi contro l’avversario, e quello che, al contrario, passa inosservato dietro il paravento ideologico dei vincoli ‘sacri’ o ‘naturali’ della famiglia, una violenza destinata a restare invisibile, o perché confusa con l’amore, i legami di sangue, i doveri coniugali e filiali, o perché ridotta nelle sue forme manifeste, come l’omicidio, a patologia del singolo?

In alcuni commenti, usciti domenica scorsa sui giornali, si contrapponevano due interpretazioni diverse del ‘branco’: nel suo editoriale su La stampa, Barbara Spinelli, ne parlava come di una figura di gruppo diffusa, struttura presente un po’ dovunque nella società italiana, dalle sfere alte della politica, dell’economia, della cultura, fino alla compagnia dei balordi di periferia; Giuseppe De Rita, nell’intervista al Corriere della sera, lo descrive invece come l’effetto della disgregazione sociale. Le manifestazioni di solidarietà e affetto nei confronti di alcuni stupratori, da parte di un gruppo di amici e di amiche, che ha destato disapprovazione e sorpresa, fa pensare a un’altra ipotesi, più allarmante: nel declino dell’autorità dei padri, capita sempre più spesso che il familismo, le sue complicità, i suoi silenzi, il suo controllo sul corpo femminile scambiato per protezione, si trasferisca fuori dall’ambito domestico, svelando parentele antiche con tutte le civili o criminali istituzioni della sfera pubblica.

Se è ancora così facile separare famiglia e società, casa e luogo pubblico, tanto da far passare nell’indifferenza, o nell’insignificanza in cui sono tenute le vicende private, i dati ormai noti della violenza domestica, è perché la cultura dominante, sia essa quella guerresca o quella pacifica, democratica, solidale, continua a farsi forte della sua ‘neutralità’. Questa è anche la ragione per cui, pur essendo evidente a tutti che il rapporto di potere tra i sessi richiederebbe processi lenti e profondi di cambiamento, a partire dai primi anni di vita, nessuno sembra aver voglia di percorrere questa strada, dove non si incontrano ‘belve’ assetate di sangue e di sesso, ma figure ‘normali’ – padri, madri, fratelli, mariti, figli, amici, amiche, maestre, colleghi- con cui tutti si possono identificare, scoprirne il lato oscuro, il segno che vi ha lasciato una catena secolare di soprusi.

Chi ha ben chiaro quale sia oggi la portata della trasformazione in atto nella vita privata e pubblica è quella parte dello schieramento cattolico, sostenuto dalle gerarchie vaticane, che del corpo femminile ha fatto il terreno di una feroce crociata quotidiana. Dall’aborto alla fecondazione assistita, dal parto con taglio cesareo alla pillola del giorno dopo, non c’è manifestazione di libertà che accenni alla nascita della donna come persona, fuori da ruoli imposti come ‘naturali’, che sfugga ai severi amministratori della legge più antica dell’uomo.

Da dove comincia allora la violenza maschile? E’ più feroce il branco che si è ‘civilizzato’, senza mai poter cancellare del tutto la sua indole remota, negando alla donna lo statuto di umano e di cittadino, espropriandola di esistenza propria, facendo del suo corpo una merce scambiabile con altri uomini, o chi continua a dargli il supporto di una ‘verità’ indiscussa, naturale o divina, che chiede alla donna di morire a se stessa, nel momento in cui da la vita a un altro essere?

Nel pretendere che la donna assecondi quello che, secondo l’Avvenire (15.01.09) è l’ “onere carnale e fisico” di mettere al mondo il figlio, lasciarsi “invadere e cambiare senza riserve” dalla vita che ha generato, non ci sono forse le premesse per quell’inspiegabile commistione di amore e odio dell’uomo nei confronti del corpo che, dopo averlo partorito, si è fatto tutt’uno con lui una seconda volta, prolungando oltre l’infanzia dipendenza e indispensabilità reciproca?

Tratto da InfoAut.org

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