Camorra di stato e stato di emergenza: il caso dei rifiuti in campania

 

Il 9 marzo 2005 la Commissione
bicamerale d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti procedeva all’audizione dei piú
importanti gruppi bancari italiani, Capitalia, Banca Intesa, San Paolo Imi e
Gruppo Unicredito Italiano[1],
preoccupati per i loro finanziamenti alle società Fibe e Fibe Campania del
gruppo Impregilo, allora controllato da Cesare Romiti, facente parte del
“salotto buono” della finanza, editore del maggior quotidiano italiano. 

Le banche
avevano voglia di smarcarsi: si erano esposte per decine e decine di milioni di
euro finanziando con la massima leggerezza Fibe e Impresilo. La relazione della
Commissione afferma infatti: «non è
chiaro come gli istituti bancari possano aver pensato, nel momento in cui
fornivano i finanziamenti, di essere in condizioni di “normalità”, come espressamente
affermato, posto che l’emergenza campana era pluriennale e nota a tutti;
considerato, peraltro, che vi era piena consapevolezza del fatto che tale sistema,
come proposto da Fibe, era “certamente pionieristico”, “il primo in Italia di
queste dimensioni"
»[2].

Il sistema a cui
si riferisce la Commissione è la messa in atto, in modo generalizzato e
“dogmatico” nella regione Campania, commissariata da oltre tredici anni, del
cosiddetto «ciclo integrato dei rifiuti», assai propagandato dall’associazione ambientalista
“parastatale” Legambiente e fatto proprio dalla quasi totalità delle forze
politiche italiane.

Dietro un elenco delle azioni da
intraprendere per gestire i rifiuti apparentemente corretto – partendo dalla
riduzione, il riciclaggio e il recupero di materia, da effettuarsi con raccolta
differenziata –, il sistema punta, però, tutto su quello che dovrebbe essere
l’ultima e residuale azione, quella del cosiddetto recupero energetico,
mediante la «termovalorizzazione», ossia l’incenerimento dei rifiuti.

Questo aspetto è stato gravemente
inquinato da uno scandaloso sistema di incentivazione pubblica, previsto nel
1992 dall’allora Commissione interministeriale dei prezzi e conosciuto come CIP
6, che, tassando con oltre il 7% le bollette elettriche, ha finanziato e
finanzia, con la scusa delle energie rinnovabili, soprattutto gli impianti di
incenerimento. A titolo di esempio, gli ultimi dati disponibili, riferiti al
2006, riguardo alle fonti «rinnovabili», assegnano agli inceneritori di rifiuti
e biomasse 1.135 milioni di euro, quasi i due terzi degli oltre 1.758 milioni
di euro erogati, a fronte di 40.370 euro assegnati al solare fotovoltaico, pari
allo 0,00002% di quanto erogato – con buona pace della la retorica
“ambientalista” e “solare”di molte delle forze politiche italiane.

È bene ricordare che il sistema
dei contributi CIP 6 rappresenta, in risorse reali, la quasi totalità del
sistema di finanziamento alle fonti energetiche «rinnovabili», ed è in questo
modo che si è fatta, e si fa, concretamente, la politica energetica e
ambientale in Italia – il che viene costantemente ignorato da politici e mezzi
di comunicazione di massa. Ma il meccanismo di finanziamento dei CIP 6 era ben
chiaro alle banche che finanziavano l’operazione «rifiuti in Campania». Sempre
riprendendo il testo della Commissione, vediamo come «i profili vantaggiosi e positivi, dal punto di vista dei finanziatori,
dell’iniziativa di finanziamento del progetto del sistema integrato del ciclo
dei rifiuti proposto dalla Fibe in Campania erano stati riposti – a quanto
emerso – nella produzione del Cdr, con i connessi benefici del CIP6»: «bruciare
energia e venderla era parte fondamentale del business di FIBE» e per le banche
«rappresentava il 60 per cento dei ricavi del progetto»[3].

Il Cdr era stato peraltro la
trovata retorica per far digerire meglio la «termovalorizzazione» dei rifiuti:
invece che bruciare il “tal quale” era meglio inventarsi un “combustibile”
derivato dai rifiuti – questo è il significato dell’acronimo Cdr –,alla cui
promozione si erano applicati una parti rilevanti del mondo “ambientalista”
italiano, la solita
Legambiente in testa.

Peccato che il
Cdr prodotto dalla società Fibe – del gruppo Impregilo, finanziato dalle piú
importanti banche italiane – negli stabilimenti realizzati in Campania, non
rispondesse al minimo delle specifiche tecniche previste dalla normativa, per
quanto riguardava sia l’insufficiente potere calorico, sia la presenza di
sostanze tossiche, e ciò nonostante che in un primo tempo «i rilievi effettuati
dalla Asl, dall’Arpa e dall’aggiudicataria, conducevano a una valutazione di
conformità del Cdr nei limiti della normativa»; successivamente però,
soprattutto a seguito dell’inchiesta giudiziaria, veniva rilevato che «il Cdr
prodotto non risponde ai requisiti richiesti: tra le molte “anomalie”, nelle ecoballe
sono state rinvenute percentuali di arsenico superiori ai limiti imposti, oltre
che a oggetti interi (per esempio, una ruota completa di cerchione e
pneumatico), fatto questo che acclara l’omissione della fase della lavorazione;
inoltre la frazione umida ha presentato valori superiori ai limiti previsti
nella tabella»; peraltro «anche
il sovvallo e la Fos sono risultati irregolari, a ulteriore conferma che la gestione
del ciclo integrato non è riuscita a rispettare il contratto sin dal momento
del conferimento del rifiuto da parte dei Comuni. Situazione che non può certo
essere spiegata unicamente in riferimento all’emergenza nell’emergenza
(connessa ai sequestri delle discariche soprarichiamati) o come risultato di
una cattiva metodologia di raccolta differenziata, ma che finisce per apparire
vulnus strutturale del progetto, sia in relazione all’adeguatezza tecnica
degli impianti, che riguardo al
know
how
di settore che si sarebbe
dovuto richiedere e pretendere dalla società affidataria»[4]
.

Le banche
comunque riescono a smarcarsi, rinunciano a subentrare a Impregilo di Cesare
Romiti e società collegate, in quanto una volta «ricevuta l’informativa dell’inadempimento di Fibe dal Commissario
Catenacci, non hanno esercitato la facoltà di sostituirsi a Fibe», però «hanno
in pratica finito per divenire gli interlocutori del Commissario in riferimento
alle successive scelte che il Commissario ha poi dovuto assumere»[5]
.

Le banche, sempre nel 2005, fanno
approvare da un governo compiacente un decreto di risoluzione del contratto che
mantiene le società di Impregilo solo come esecutrici, mentre lo Stato, tramite
il Commissariato per l’emergenza, si assume, da allora in poi, tutti i rischi
imprenditoriali, con buona pace, questa volta, della retorica “liberale e
liberista” imperante nella cultura politica ed economica italiana – esempio
concreto e usuale di capitalismo assistito. Viene cosí azzerata la gara di
appalto che aveva assegnato, a suo tempo, a Impregilo e società collegate la
gestione di tutto il ciclo dei rifiuti in Campania.

Una strana gara di appalto,
quella che le società del gruppo Impregilo di Cesare Romiti avevano vinto, nel
lontano 1999, «promettendo servizi
nettamente sottocosto»
secondo quanto giudicato da un
esperto, come Walter Canapini, in un’intervista a un quotidiano[6]. Del
resto i criteri di valutazione di quella gara d’appalto puntavano su bassi
costi e rapidità nei tempi di realizzazione e messa in esercizio (300 giorni!),
mentre alla qualità degli impianti era riservato un misero 10%, tanto che
Impregilo e collegate avevano avuto per il «valore tecnico delle opere» il
punteggio di gran lunga piú basso, rispetto agli altri partecipanti alla gara.

Del resto, proprio la gara di
appalto svela il trucco della retorica dell’ambientalismo egemone “legambientino”
del «ciclo integrato dei rifiuti»: da allora e per tutto il seguito della
vicenda, si punterà tutto sulle soluzioni impiantistiche finalizzate
all’incenerimento. Filippo Granara, Rappresentante di Banca Opi gruppo San
Paolo Imi, che aveva posto in essere il project financing alla Fibe per
circa 400 milioni di euro, riferendosi alla gara di appalto e all’inceneritore
di Acerra, dichiarava alla Commissione che «era previsto nella gara espressamente il beneficio CIP6 per
quell’impianto»[7],
valutato, al 2005, solo per le «ecoballe» già stoccate, in «300 milioni di
euro»[8].
E sarà però proprio questa delirante ortodossia inceneritorista che
causerà la crisi.

L’ortodossia “ambientalista”,
riproposta in modo martellante anche dai mass media e da frotte di
politici ignoranti, vede la «termovalorizzazione» mediante incenerimento non
solo come soluzione del problema rifiuti, ma anche come alternativa alle
discariche – dato, quest’ ultimo, assolutamente fantasioso, in quanto se anche
la «termovalorizzazione» fosse integrale per tutti i rifiuti, non li eliminerebbe
fisicamente, ma si limiterebbe a ridurli a circa il 30% della massa iniziale,
oltre a produrrne, a sua volta e in quota non irrilevante, un ulteriore 3-5% e
di una tipologia estremamente pericolosa, e tutti questi rifiuti hanno a loro
volta bisogno di discariche.

A dispetto delle retoriche
inceneritoriste, la chiusura delle discariche allora esistenti e la mancata
previsione di nuove discariche nel «ciclo integrato dei rifiuti» campano innescherà,
nel proseguo, inevitabilmente la crisi e lo stato di emergenza.

Gli impianti realizzati dalle
imprese del gruppo Impregilo di Cesare Romiti risulteranno essere di infima
qualità – come dimostra la vicenda del Cdr diventato semplicemente «ecoballe»
negli impianti realizzati e, ancora di piú, il progetto del primo impianto di
«termovalorizzazione», quello di Acerra, per il quale non viene previsto,
originariamente, nemmeno un soddisfacente sistema di abbattimento degli
inquinanti, tanto che il gruppo di lavoro del ministero dell’Ambiente, che
successivamente revisionerà il progetto, imporrà «adeguamenti» tecnici per un
costo di 25 milioni di euro[9].

La qualità degli impianti veniva
invece vantata dall’amministratore delegato di Impregilo, Alberto Lina, che
dichiarava alla Commissione di avvalersi di know
how
tedesco proveniente da Deutsche Babcock Anlangen Gmbh, impresa
collegata a Impregilo nell’affare “gestione rifiuti” in Campania, e che avrebbe
avuto ben «570 referenze al mondo nel
campo degli inceneritori»[10].
Queste affermazioni erano state evidentemente prese per buone dal ministro
dell’Ambiente, retto allora dall’ambientalista di lungo corso Edo Ronchi, che
il 31 dicembre 1999 esprimeva il parere finale favorevole di «compatibilità
ambientale» in quanto «sulla base delle informazioni disponibili non si sono
rilevati significativi elementi di incompatibilità ambientale e territoriale
connessi con la costruzione e realizzazione dell’impianto»[11].

Il parere di «compatibilità
ambientale» dovrebbe arrivare solo dopo una formale e corretta procedura di
Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), che in questo caso non c’è stata, se
si deve tener conto anche di quanto affermato dall’ing. Bruno Agricola, alto
dirigente del ministero dell’Ambiente, a capo di un gruppo di lavoro
ministeriale che, avendo avuto il compito di “aggiornare” il parere
ministeriale, cosí dichiarava alla Commissione: «stiamo intervenendo in un processo in cui vi è una necessità di
carattere generale che ha portato ad alcune decisioni, che per noi sono un
punto di partenza. È ovvio che, se si fosse seguita una procedura non di
emergenza, i risultati, a mio avviso, sarebbero stati sicuramente differenti,
però non si può immaginare di cambiare le condizioni a monte, perché queste per
noi sono un vincolo»
. Dichiarazioni che, da buon burocrate navigato
tendente a smarcarsi da responsabilità ritenute esclusivamente politiche,
ribadisce quando, di seguito, afferma: «quello
che noi non possiamo fare è dire dove avremmo voluto o potuto mettere
l’impianto. Noi dobbiamo dire se è compatibile o meno; abbiamo indicato le
condizioni alle quali si ritiene compatibile: questa è l’opinione della
commissione, poi vi è l’opinione del ministro. Sulla base di ciò si potrà dire
se è compatibile o meno – il parere, alla fine, è del ministro»[12].

Comunque, per tutelare l’ambiente, e anche se stesso, il gruppo di lavoro
ministeriale imponeva all’inceneritore di Acerra oltre gli «adeguamenti»
tecnici anche l’esclusivo utilizzo di Cdr di qualità adeguata.

Del resto il Capitolato speciale
di appalto prevedeva che i concorrenti si impegnassero «con mezzi finanziari
propri» a «realizzare tre impianti produzione Cdr e un impianto dedicato alla
produzione di energia mediante termovalorizzazione Cdr da porre in esercizio
entro il 31 dicembre 2000, assicurando nelle more della messa in esercizio di
detto impianto il recupero energetico del combustibile prodotto», oltre a
«possedere e/o disporre immediatamente di sito per la realizzazione di impianto
di termovalorizzazione»[13].

Si noti come la gara d’appalto –
oltre a prevedere tempi “certi” di realizzazione, slittati però, per alcuni
aspetti, di oltre 7 anni – conferissea la piena potestà all’impresa
aggiudicataria, in barba a qualsiasi minimo criterio di pianificazione
territoriale, di scegliere i siti per realizzare gli impianti.

Questo aspetto della vicenda darà
luogo a strane vicende legate alla crescita estemporanea dei valori commerciali
delle aree da destinarsi agli impianti, con compravendite effettuate da
soggetti terzi, poco prima dell’acquisto definitivo da parte dalle imprese del
gruppo Impregilo di Cesare Romiti[14].

A fronte delle incredibili
carenze da parte delle strutture industriali “nordiste”, come delle amministrazioni
locali e dei governi romani dai colori piú variegati, senza dimenticare gli
apparati culturali “ambientalisti” e i mass media asserviti a concreti
interessi economici, l’unica struttura che in questa vicenda è riuscita a
essere adeguata ai compiti – insieme a gruppi di cittadini consapevoli, con i
loro comitati –, è stata la magistratura napoletana che, perlomeno, ha
evidenziato con chiarezza alcuni aspetti di questa gigantesca truffa, portando
avanti alcune precise denunce, a cominciare proprio dalle «ecoballe» fatte
passare per Cdr, fino al nodo, particolarmente importante, delle carenze impiantistiche
e gestionali degli impianti, nodo che viene al pettine nel giugno 2007 quando
il Gip del Tribunale di Napoli dispone il sequestro di circa 750 milioni di
euro alle imprese del gruppo Impregilo, oltre alla interdizione ai contratti
con la pubblica amministrazione per un anno.

Ma questa azione della
magistratura era stata prevista in tempo utile dalle banche, a dimostrazione
che il sistema bancario, in questa vicenda, si è dimostrato, nel concreto, piú
accorto del velleitario sistema politico, non avendo voluto accollarsi un
fallimentare sistema di gestione, a partire dal «termovalorizzatore» di Acerra.

Per il futuro vengono proposte
alcune ricette per uscire dalla crisi, anche elaborate proprio da chi è stato
la sua principale causa e, non a caso, sono precisamente queste a essere
assunte da tutta la classe politica tradizionale.

Un esempio è quello che
suggeriva, a suo tempo, l’amministratore delegato di Impregilo Alberto Lina:
modificare la normativa sul Cdr e rendere finalmente utilizzabili e
profittevoli, come combustibile, le «ecoballe» stoccate. Queste le sue parole: «a questo punto bisogna andare avanti e
realizzare, il piú velocemente possibile, i due termovalorizzatori – noi o
altri, se ne può parlare – e, in essi, bruciare le ecoballe che si sono accatastate.
Non mi sembra che queste ecoballe possano essere smaltite presso degli
inceneritori di terzi e quindi dovremo bruciarle noi. Per questo, basterà solo
aggiungere qualche copertone e, sicuramente, nei termovalorizzatori della
Campania queste ecoballe diventeranno combustibile e produrranno energia.
Quindi, in questo momento, stiamo producendo non materiale inutile, bensí
rifiuti che il sistema, nel suo complesso, discrimina e ci dice che non sono a
norma e che non possono essere stoccati. In realtà, dobbiamo uscire da questa
situazione abbastanza intricata e assurda»[15].

In tal modo si supererebbero anche le prescrizioni pilatesche dei tecnici del
ministero dell’Ambiente, che avevano vietato l’utilizzo delle «ecoballe» perlomeno
nell’inceneritore di Acerra.

Questa soluzione diventa piú
solida se, adesso e anche per il futuro, l’incenerimento di queste «ecoballe»
verrà incentivato come energia prodotta da «fonte rinnovabile», proprio per la
presenza di frazioni significative di rifiuti biodegradabili, frazione che in
un sistema decente di gestione rifiuti dovrebbe essere destinata alla
produzione di compost e non certo incenerita.

L’incentivazione
all’incenerimento della frazione biodegradabile dei rifiuti viene invece
prevista dall’ultima Legge finanziaria, art. 2, comma144 e comma 145, nella
misura di 22 centesimi di euro per kWh, in misura uguale all’energia idraulica
e in misura maggiore rispetto all’energia geotermica e ai gas prodotti dai
processi di depurazione o ai gas di discarica: in questa ottica il detto camorrista
“a monnezza è oro” diventa legge dello Stato.

Dall’esame dei fatti dovrebbe
risultare chiaro quale è la camorra che sta dietro all’emergenza rifiuti della
Campania.

Piú che la locale e tradizionale
malavita – che si è occupata di gestire i rifiuti industriali e tossici per
conto del sistema produttivo nazionale –, la vera camorra è quella finanziaria-industriale
dei “salotti buoni” milanesi, padrona dei governi romani e dell’editoria
nazionale – e che poi è lo “stato” che governa gli italiani. Il fatto che
questo “stato” sia padrone dei mezzi di comunicazione di massa risulta essere
particolarmente utile per scaricare le vere responsabilità su un’indeterminata
malavita e su una classe politica locale – peraltro assolutamente
indifendibile. Meglio poi se l’operazione viene eseguita da eroici e minacciati
scrittori dalla barba incolta o da giornalisti professionalmente intenti a
fustigare la morale politica – tutelando, nel contempo, l’immoralità e la
criminalità economica ufficiale e istituzionale.

La soluzione proposta, invece,
dai gruppi di cittadini consapevoli e dai loro comitati, riassumibile nella
strategia «verso i rifiuti zero», non sembra avere, al momento molte
possibilità, sia perché non è abbastanza dispendiosa – non prevedendo la
realizzazione degli impianti di incenerimento che, se sono quelli piú
pericolosi per la salute, sono però anche i piú lucrativi per la realizzazione
e gestione –, sia perché responsabilizza il sistema produttivo a un uso piú
sostenibile delle merci e dell’energia, senza ricorrere alla faciloneria di
soluzioni impiantistiche, che promettono miracoli e poi, nel concreto,
comportano il piú delle volte danni non previsti, oltre che, in alcuni casi,
veri e propri disastri.

A ogni modo, in Italia sono ormai
milioni gli abitanti di Comuni o Consorzi che hanno realizzato concretamente
questa strategia; partendo dalla raccolta differenziata «porta a porta» si
raggiungono risultati quali la minore (intorno al 20%) produzione di rifiuti pro
capite
, le maggiori (fino al 75%) rese di raccolta differenziata, i minori
(mediamente del 15%) costi del servizio. Questi dati risultano dallo studio
effettuato dall’Ecoistituto di Faenza, confrontando, con dati del 2005, 918
Comuni di Lombardia e Veneto, per un totale di 6.750.734 abitanti, che
effettuavano la raccolta «porta a porta», con 110 comuni, per un totale di
1.749.734 abitanti, che effettuavano invece la tradizionale raccolta stradale[16] – e
si deve rimarcare come questi dati rendono del tutto superflua una specifica impiantistica
di trattamento del residuo mediante la combustione dei rifiuti, combustione che
comporta sempre rischi sanitari non trascurabili.

Si deve anche ricordare che le
scelte virtuose in materia di rifiuti non sono iniziate per volontà dalla
classe politica tradizionale, compresi i sedicenti “amici del popolo” o “amici
dell’ambiente”, bensí per volontà di cittadini consapevoli, che si sono
organizzati in liste civiche proprio per evitare la realizzazione di inutili impianti nocivi o scempi territoriali.

Un primo esempio è quello di
Sernaglia della Battaglia, in provincia di Treviso dove, nel 1987, a fronte di
un’amministrazione che, dopo aver venduto il territorio ai cavatori, lo voleva
poi rivendere all’azienda dei rifiuti di Padova onde riempire i buchi con
milioni di tonnellate di rifiuti, un comitato dei cittadini, non limitandosi a
organizzare i blocchi delle strade di accesso alle cave, ha dato vita a una
lista civica che, dopo aver spazzato via i vecchi amministratori, ha
realizzato, tra i primi in Italia, la raccolta «porta a porta» – arrivata, nel
frattempo, anche oltre l’80%. Un secondo esempio è quello di
Montebelluna,
sempre in provincia di Treviso, dove,
contro il progetto di un inceneritore perseguito da una precedente
amministrazione, due liste civiche sono riuscite nel 2002 a insediare un sindaco
che, dopo aver bloccato quel progetto, ha puntato sul sistema di raccolta
«porta a porta» – arrivato al 75% di raccolta differenziata.

Come si è potuto rilevare, la
vera emergenza rifiuti in Campania – ma non solo rifiuti, e non solo in
Campania – è dovuta alla presenza di un sistema camorristico di Stato, che si
avvale, per funzionare “ordinariamente”, di uno stato di emergenza permanente.
Uno stato di emergenza che va superato, partendo dall’azzeramento di una classe
politica e imprenditoriale completamente fallimentare, per arrivare alla messa
all’ordine del giorno della democrazia, di un’“ordinaria” e necessaria democrazia.

È cosí che allo “stato di
eccezione” deve essere opposto il diritto alla resistenza, come del resto aveva
previsto l’esponente cattolico Giuseppe Dossetti come specifico articolo della
Costituzione Italiana[17]: «quando i poteri pubblici violano le libertà
fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza
all’oppressione è un diritto e un dovere del cittadino».

 

MICHELANGIOLO BOLOGNINI


[1] Tutti
i resoconti della Commissione sono reperibili nel sito  

[2]
Relazione territoriale sulla Campania della Commissione bicamerale, approvata
il 26 gennaio 2006.

[3]
Seduta della Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti del 9 marzo 2005.

[4]
Relazione territoriale sulla Campania della Commissione Bicamerale approvata il
26 gennaio 2006.

[5]
Seduta della Commissione Bicamerale sul ciclo dei rifiuti del 6 luglio 2005.

[6]
Intervista del 4 gennaio 2008 al quotidiano «il manifesto».

[7]
Seduta della Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti del 9 marzo 2005.

[8]
Dichiarazione del Commissario Tommaso Sodano nella Seduta della Commissione
bicamerale sul ciclo dei rifiuti del 6 luglio 2005.

[9]
Seduta della Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti dell’8 febbraio 2005.

[10]
Seduta della Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti del 6 luglio 2005.

[11]
Relazione territoriale sulla Campania della Commissione bicamerale approvata il
26 gennaio 2006.

[12]
Seduta della Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti dell’8 febbraio 2005.

[13]
Relazione territoriale sulla Campania della Commissione bicamerale approvata il
26 gennaio 2006.

[14]
Seduta della Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti del 6 luglio 2005.

[15]
Seduta della Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti del 6 luglio 2005.

[16]
Reperibile in questo sito  

[17] G.
Agamben, Stato di eccezione, Torino, Bollati-Boringhieri, 2003, pp.
20-21

Questa voce è stata pubblicata in General. Contrassegna il permalink.

6 risposte a Camorra di stato e stato di emergenza: il caso dei rifiuti in campania

  1. Pingback: shupitoriko blog

  2. Pingback: shupitoriko blog

  3. Pingback: shupitoriko blog

  4. Pingback: bloetura blog

  5. Pingback: bloetura blog

  6. Pingback: bloetura blog

I commenti sono chiusi.