Spesso si fa un gran parlare di contro-cultura, ma cosa si intende esattamente con questa parola? Contro cosa si schiera la contro-cultura? Prima di tutto contro tutto quello che è luogo comune, valore affermato e diffuso perché ripetuto fino allo sfinimento dagli altoparlanti dell’industria culturale. Sempre di più la cosiddetta cultura, la cosiddetta arte – usiamo questi due termini nell’accezione più ampia possibile – non sono che strumenti per confermare pregiudizi, per riaffermare una norma assunta spesso in modo inconsapevole, per anestetizzare lo spettatore, ascoltatore, fruitore in generale facendo in modo di non urtare minimamente la sua sensibilità, confermando, riaffermando l’immutabilità dell’esistente. Un film, un documentario, un’esposizione, una scritta su un muro, un concerto diventano contro-cultura nel momento in cui invece urtano, inquietano, mettono a disagio, perché un certo disagio è inevitabile di fronte alla novità che mette in dubbio quello in cui crediamo aproblematicamente. La contro-cultura è dunque, prima di tutto, contro tutto ciò che è ovvio e scontato, e che per questo si conforma all’esistente. Stiamo bene attenti: non stiamo parlando solo di contenuti, o di forme artistiche. Parlare di contro-cultura non significa necessariamente ed esclusivamente parlare di avanguardie artistiche, di film senza trama con i sottotitoli in giapponese e musica fatta con frullatori e cucchiaini. Significa anche parlare del rapporto che l’arte e la cultura intrattengono con il cosiddetto mercato. Significa parlare di tutto ciò che si muove al di là non solo degli spazi mercificati, ma anche delle logiche mercificanti. Significa cioè parlare di eventi e progetti il cui obiettivo immediato non è un ritorno economico basato inevitabilmente sui (presunti) gusti del pubblico, ma il cui obiettivo è mettere in dubbio gusti consolidati a forza di ripetizione seriale di eventi-fotocopia l’uno dell’altro. È fin troppo semplice mostrare come i presunti gusti del pubblico, sono piuttosto gusti creati ad arte nel pubblico. Insomma, fare cultura all’interno di un centro sociale non dà automaticamente diritto all’appellativo contro-cultura, così come fare cultura in spazi collocati più o meno all’interno del mercato non nega necessariamente la possibilità di fare contro-cultura. A Pisa, luogo in cui la contro-cultura ha da sempre avuto un ruolo importantissimo (basti pensare alle pionieristiche esperienze del Victor Charlie o del Macchia Nera), stiamo assistendo negli ultimi mesi ad una moltiplicazione degli spazi e dei momenti in cui si fa cultura. Questo dato, in sé sicuramente positivo, pone interessanti interrogativi a proposito del ruolo della cultura, delle modalità in cui è possibile farla, delle logiche che a volte (o forse sarebbe meglio di re spesso) stanno dietro a eventi culturali e simili. Per questo, come redazione di Aut Aut, abbiamo deciso di ospitare sul nostro blog uno spazio che si occupi di questo tema. Come? Attraverso recensioni di concerti, di mostre, di dischi, di eventi. Attraverso interventi su ciò che funziona e ciò che non funziona in questo ambito, sulle difficoltà che incontra chi suona, dipinge, fotografa, fa video, performance, danza, teatro e chi più ne ha più ne metta. Attraverso contributi esterni, che auspichiamo ci giungano numerosi da parte di tutti coloro che a Pisa si impegnano in ambito culturale, ma anche da chi vorrebbe farlo ma non può, da chi una sera va ad un concerto e non entra perché il biglietto costa troppo, o magari entra ma il concerto gli fa schifo, o entra e il concerto gli piace.
Jules Bonnot