C’era una volta, non tanto tempo fa, in una città non tanto lontana, un nano chiamato Berlusconi che aveva invitato un altro nano, di nome Sarkozy, per parlare di energia insieme con i due giganti del settore dei rispettivi paesi: Enel ed Edf. Alla fine della giornata, dopo pranzi pantagruelici e battute di dubbio gusto sulla moglie dell’ospite, i due nani annunciavano di aver raggiunto un accordo per costruire in Italia, con la collaborazione dei due giganti, quattro centrali nucleari di terza generazione (EPR), approfittando del sonno profondo in cui la strega Mediaset aveva precipitato l’opinione pubblica italiana da più di quindici lunghi anni.
Stando all’accordo intergovernativo, promulgato a Palazzo Madama lo scorso 24 febbraio, e ai memorandum of understanding che saranno sottoscritti dalle due aziende, la prima centrale sarà operativa entro il 2020 e fornirà 1600 Megawatt di potenza. Le altre 3 a seguire, per un totale di 6400 Mw, il 25% del fabbisogno nazionale. Il costo dell’operazione è faraonico: circa 3 miliardi di euro a centrale, per un totale di una dozzina di miliardi (che in Italia tra tangenti e inefficienze varie diventeranno…?).
In attesa del ddl Scajola, che andrà a definire il quadro normativo che renderà possibile la reintroduzione in Italia delle centrali nucleari, si tratta del primo decisivo passaggio che porterà il nostro paese ad abbandonare la strada della moratoria, intrapresa dopo i referendum dell’8-9 settembre 1987. In quell’occasione il popolo italiano, sull’onda emotiva seguita al disastro nucleare di Cernobyl, si espresse in favore di 3 quesiti referendari che chiedevano l’abrogazione delle norme che governavano la localizzazione delle centrali e l’erogazione di contributi a favore dei comuni e delle regioni sedi di centrali, nonché la norma che consentiva all’Enel di partecipare ad accordi internazionali per la costruzione e la gestione di centrali nucleari all’estero, rendendo di fatto impossibile la costruzione di nuovi impianti nucleari e inducendo il governo a sancire una moratoria che portò alla graduale dismissione delle 4 centrali attive che già esistevano.
Al di là del “fanatismo ideologico degli ambientalisti”, messo immediatamente all’indice dal nano e dai suoi perfidi servitori, i cavalieri dell’Ordine dei Giornalisti, vediamo quali sono le ragioni per le quali questa decisione deve essere contrastata con ogni mezzo. Costi vs benefici. Il primo dato che emerge è che il nucleare, compreso quello di terza generazione, è una tecnologia estremamente costosa. Abbiamo già citato il costo per la realizzazione di una centrale – 3 miliardi di euro – cui vanno a sommarsi i costi per lo smaltimento delle scorie radiattive e quelli, spesso dimenticati ma ingenti, della manutenzione durante il periodo di attività della centrale nonché durante la lunga fase della sua dismissione (un reattore per la fissione nucleare non si spegne premendo un pulsante, forse non c’è scritto nei Bignami di fisica nucleare che Scajola legge mentre vola per Albenga solo soletto sul volo Alitalia fatto apposta per lui). Per dismettere le 4 centrali italiane e bonificare le aree interessate sono stati finora spesi circa 2 miliardi di dollari, secondo l’International Energy Agency. Tutte queste spese fanno del nucleare una delle tecnologie per la produzione di energia complessivamente più costose, in termini economici, per la collettività.
Inoltre, nonostante non comporti emissione di gas-serra, il nucleare è una tecnologia ad elevato impatto ambientale, per il problema dello smaltimento delle scorie – il materiale di scarto può restare attivo per tempi dell’ordine del milione di anni – e per l’enorme consumo di acqua, che rende necessario costruire le centrali sulla riva di mari o grandi laghi. Per di più, le conseguenze di guasti causati da imperizia, calamità naturali – l’Italia è uno dei luoghi più sismicamente attivi al mondo – o attentati terroristici sono potenzialmente catastrofiche. Per citare Carlo Rubbia, premio Nobel per la Fisica, che secondo qualcuno ne capisce di più di Scajola e del nano: “Non esiste un nucleare sicuro, o a bassa produzione di scorie”. Inoltre, il quotidiano britannico Independent, citando documenti industriali della Edf (il gigante francese), sostiene che le nuove centrali, pur essendo più sicure dal punto di vista della probabilità di incorrere in incidenti, sono molto più pericolose una volta che se ne sia verificato uno.
Infine, il nucleare è una tecnologia vecchia e poco efficiente (l’efficienza di una centrale nucleare è circa del 40%, una delle più basse in assoluto), recentemente poco sviluppata nel nostro paese – da qui la necessità della partnership straniera – e non in grado di emancipare l’Italia dall’estero sul piano dell’approvvigionamento energetico, visto che l’uranio, il combustibile utilizzato in questo tipo di centrale, è una risorsa mineraria di cui il sottosuolo italiano non è fornito.
L’aspetto forse più paradossale di tutta la vicenda è che le centrali nucleari richiedono una decina d’anni per essere costruite e attivate, tempi biblici rispetto alle esigenze impellenti di produzione di energia e di riduzione delle emissioni, che sono gli argomenti sbandierati dai fautori del nucleare. Ma già al giorno d’oggi l’uranio è una risorsa molto contesa sul mercato, vista la sua scarsità. Per farsi un’idea del problema collegato all’approvvigionamento di uranio, il suo prezzo nel 2001 ammontava a circa 7 dollari per libbra. Nel 2007 ha toccato il picco di 137 dollari per libbra, e da oggi al 2020, quando la nostra prima centrale dovrebbe irrealisticamente essere pronta, l’uranio avrà raggiunto chissà quale prezzo e, soprattutto, le scorte, oggi per lo più costituite dagli arsenali atomici in dismissione, staranno per finire. Sarebbe davvero un bel capolavoro se le nostre centrali dovessero venire dismesse anzitempo per penuria di combustibile, proprio nello stesso periodo in cui ci sarà lo stesso identico problema sul versante del petrolio.
Modello energetico e alternative. Il nucleare è l’emblema di un mercato dell’energia costruito e gestito allo scopo di massimizzare i profitti delle grandi compagnie, in barba agli interessi della collettività, alla democrazia e alla partecipazione della cittadinanza. Basti pensare che una decisione così epocale, che sconfessa un pronunciamento popolare di straordinaria rilevanza (i 3 quesiti referendari videro votare il 65,1% della popolazione avente diritto, con una percentuale di SI rispettivamente dell’80,6%, 79,7%, 71,9%), viene presa dal governo in un vertice bilaterale, e sarà resa operativa da un ddl su cui probabilmente sarà posta la fiducia.
Oltre a non essere stati coinvolti in alcun modo la popolazione, la comunità scientifica e gli enti locali, non sarà così neppure affrontata un’ampia discussione parlamentare. E cosa accadrà quando verranno decise, ovviamente dall’alto, le sedi in cui costruire gli impianti e in cui stoccare le scorie? Su quest’ultimo punto la scelta è quasi obbligata, viste le caratteristiche geologiche che il sito deve avere: Scanzano Ionico è avvisata. Saranno ancora i manganelli ad avere ragione del “fanatismo degli ambientalisti” e della contrarietà delle popolazioni del luogo? Quante nuove “Val di Susa” credete di poter affrontare con i vostri sgherri?
Eppure questo modello di produzione energetica, imperniato sulle grandi centrali, non è l’unico possibile. Se da un lato è vero che al giorno d’oggi, e con le tecnologie a disposizione, non si può pensare ad una riconversione integrale del sistema produttivo alle tecnologie rinnovabili (solare fotovoltaico, eolico, idroelettrico, geotermico, biomasse etc.), dall’altro si registra come in Italia si investa molto meno che negli altri paesi europei su questo terreno, nonostante il nostro territorio ci offra notevoli potenzialità in più rispetto agli altri. Se ciascun territorio sfruttasse appieno l’energia offertagli dalla natura, questo ridurrebbe di molto la dipendenza dalle grandi centrali convenzionali – che resterebbero comunque necessarie, ridotte di numero, per fornire i picchi di potenza necessari all’attività industriale – e si renderebbe autosufficiente almeno per quanto riguarda il consumo per uso domestico, per l’illuminazione pubblica etc., quasi azzerando l’impatto ambientale.
Ma la vera parola d’ordine deve essere il risparmio energetico, dal momento che qualunque siano le tecnologie e il modello produttivo scelti, è assurdo produrre più energia di quanta ne sia necessaria a parità di prestazioni. E’ mai possibile che in Italia il fabbisogno energetico per gli edifici –illuminazione, elettrodomestici etc., ma per il 78% si tratta del riscaldamento! – è di 300 kilowattora per metro quadro all’anno con picchi di 500, mentre in un paese molto più freddo come la Germania è di 200? O che in Svezia, ridicolo a dirsi, lo standard per l’isolamento termico degli edifici non autorizza perdite di calore superiori a 60 kWh/m²/anno? E perché non si fa niente per incentivare la produzione domestica di energia con tecnologie quali la micro-cogenerazione, in modo che le abitazioni e i loro proprietari si trasformino, da consumatori, in produttori di energia da riversare sul mercato? Questo renderebbe estremamente più democratico il mercato dell’energia, ma contrasterebbe molto con gli interessi dei grandi produttori, che realizzano utili da capogiro costruendo le loro grandi , inquinanti e costose centrali. Probabilmente il governo preferisce tenerseli buoni, e incentivare i cittadini a farsi giustizia da soli con le ronde, piuttosto che a farsi l’energia da soli con la micro-cogenerazione o i pannelli solari fotovoltaici.
Non ci vorrebbe neanche molto, dal punto di vista legislativo. In Alto Adige, ad esempio, la legge impone che le case vengano costruite per rispettare i più moderni standard sulle perdite di calore, mentre a Barcellona tutti i nuovi edifici devono essere dotati di pannelli solari. La politica, se vuole, queste decisioni è in grado di prenderle, soprattutto oggi che oltreoceano al petrol-presidente Bush si è sostituito Obama, che ha incentrato il suo programma di rilancio dell’economia in crisi sulla riconversione ecologica, investendo cifre da capogiro che serviranno, oltre che a tutelare l’ambiente, a rilanciare consumi e occupazione.
E l’Italia che fa? Investe cifre faraoniche in qualcosa che, oltretutto, non avrà impatti economici e occupazionali significativi prima di dieci anni.
Keynes diceva che per rilanciare l’economia in un periodo di crisi si deve dar corso ad imponenti investimenti in opere pubbliche, secondo la famosa massima per cui se si scava e si ricopre una buca questo genera lavoro, e con esso salario e consumi. Ma diceva anche che l’impatto di queste misure doveva essere immediato, perché “nel lungo termine siamo tutti morti”. Senza voler tessere le lodi del keynesismo, non sarebbe meglio investire nelle suddette tecnologie rinnovabili, nella produzione locale e su piccola scala di energia, e sul risparmio energetico? Questo avrebbe immediate ricadute, oltre che sulla produzione di energia e sull’abbattimento delle emissioni di CO2, anche sull’economia, sull’occupazione e sull’ambiente, e costituirebbe un’ottima occasione di rilancio per il settore della ricerca, pubblica e privata.