Bye bye dollaro.

Altrenotizie.org – Dallo scoppio della crisi americana del credito, si discute sempre più sul ruolo del dollaro come valuta di riserva mondiale, un elemento che per decenni ha aiutato gli Stati Uniti a indebitarsi a buon mercato. Pechino, Mosca e altri governi dei mercati emergenti si sono lamentati con i vertici internazionali per l’eccesivo peso economico di Washington, essendo decisamente contrariati per come l’onda d’urto del crollo delle banche americane sia andata ben oltre i confini del Pacifico.
 
C’è, infatti, una voce che da un po’ di tempo gira insistente tra i colletti bianchi delle agenzie economiche mondiali. Il protagonista del rumor finanziario è proprio l’arcinoto biglietto verde, quel dollaro che tanti guai ha causato all’economia mondiale e che ora, proprio per le conseguenze nefaste della sua crisi, si pensa di esautorare dal ruolo di principe delle transazioni petrolifere entro il 2018.
 
Pare che i paesi arabi del Golfo Persico, assieme a Russia, Cina, Giappone e Francia, abbiano cominciato ad attivarsi per creare un’alternativa monetaria nei pagamenti di greggio: la moneta statunitense dovrebbe lasciare il passo ad un paniere misto di valute, tra cui lo yuan cinese, lo yen giapponese, l’euro, il sempreverde oro e una nuova coniazione ideata per i paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo – tra cui spiccano Arabia Saudita, Abu Dhabi, Qatar e Kuwait. Secondo Robert Fisk, che per primo ha ventilato quest’ipotesi sull’inglese The Indipendent, i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali di Cina, Giappone, Russia e Brasile si sono già incontrati, lontano dalle luci dei riflettori, per discutere assieme le linee guida del progetto.
 
Se così fosse, questa manovra rappresenterebbe il più epocale sconvolgimento finanziario nell’area del Medio Oriente. Ma forse l’uso del condizionale è più che altro una formalità: a detta di fonti informate sugli ambienti bancari arabi e cinesi di Hong Kong, questo imprevisto cambio di rotta da parte delle nuove potenze economiche potrebbe aiutare a spiegare il repentino aumento del prezzo dell’oro.
Se si vanno a guardare le quotazioni del re dei metalli preziosi, si noterà, infatti, che in un solo anno il prezzo all’oncia (circa 29 grammi)è passato da 693 a 1044 dollari, con un aumento record di 350 dollari.
 
A questo si aggiunge poi la corsa in discesa della moneta statunitense: le quotazioni del dollaro sono sprofondate sotto la soglia dei 70 centesimi di euro contro gli 80 dell’ottobre 2008, registrando una flessione del 15%.
C’è però da scommettere sul fatto che gli Stati Uniti non si arrenderanno così facilmente alla pressioni delle nuove economie capitaliste, in cui sono tra l’altro coinvolti storici alleati della democrazia a stelle e strisce, come il Giappone e l’Arabia Saudita.
 
Gli analisti di borsa cominciano a vedere questa inedita contrapposizione est-ovest, come una miccia che potrebbe far implodere i buoni propositi diplomatici di Cina e Usa nella regione mediorientale, mandando all’aria i delicati limiti d’influenza su questioni come l’avvicendamento politico e lo sfruttamento del petrolio.
Nel caso in cui le previsioni dei guru economici londinesi fossero futuribili, la prospettiva ritrarrebbe una guerra economica tra le due superpotenze per il controllo del petrolio arabo, con il pericolo di trasformare le già acute crisi mediorientali in un campo di battaglia in cui si decideranno i destini della nuova supremazia globale.
 
Il lento declino dell’egemonia dello zio Sam, legato a doppio filo alla crisi mondiale nata dalla spregiudicatezza della finanza a stelle e strisce, è stato riconosciuto pienamente anche dal presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, che di recente ha candidamente ammesso: "Uno dei risultati della crisi potrebbe essere la consapevolezza del fatto che i rapporti di forza in ambito economico sono ormai cambiati". Ma forse la vera spina nel fianco dell’economia americana ha un altro volto.
 
L’eccezionale crescita economica cinese e il rancore dei produttori e consumatori di petrolio per la pesante ingerenza del governo statunitense nel sistema finanziario internazionale, potrebbero essere due delle principali motivazioni per i recenti colloqui con i paesi del Golfo. Fin dagli accordi di Bretton Woods, nel 1944, i partner commerciali degli States sono stati costretti a misurarsi con l’ingombrante presenza di Washington e, soprattutto, con la supremazia di fatto del dollaro come valuta di riserva globale; non a caso, la stessa Cina conta gran parte della sua ricchezza nazionale in dollari.
 
A fine settembre l’Iran di Ahmadinejead è stato il primo paese ad annunciare di voler mutare le sue riserve di moneta estera in euro, abbandonando definitivamente il dollaro. Tuttavia, secondo alcuni analisti, ci vorranno molti anni prima che il biglietto verde venga sostituito de facto. "Per il declino della sterlina ci sono voluti cinquant’anni – spiega Gabriel Stein del centro studi Lombard Street Research – Il declino del dollaro è probabilmente iniziato quando Nixon decise di rompere il legame con l’oro, perciò rimangono almeno altri vent’anni". E’ proprio il caso di dirlo: chi vivrà, vedrà.
 
Mariavittoria Orsolato, Altrenotizie.org
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