1989-2009, buon compleanno fantasma!

Una breve presentazione sul sito della Deutsche Botschaft Kabul, l’ambasciata tedesca in Afghanistan, annuncia sull’Home Page la mostra "I nuovi padroni del Muro", che racconta l’itinerario spazio-temporale delle tante parti in cui è stato diviso l’antico vallo berlinese dopo la sua demolizione: non di tutte, per la verità, perché la maggior parte di quei pezzi era piccolissima, e venne raccolta o asportata dalle popolazioni delle due città, Berlino est e Berlino ovest, poi venduta e rivenduta, trasformata e falsificata. Ma quello di cui si racconta nella mostra è l’itinerario dei pezzi di un’opera architettonica che ha dato luogo a centinaia di strane sculture – i segmenti successivi alla demolizione – a loro volta decorate da esuberanti pitture, i graffiti vergati sul lato ovest da artisti, punk e fricchettoni durante gli anni Ottanta. Questi cimeli si trovano oggi in giro per il mondo, acquistati dal Vaticano e dalla Regina d’Inghilterra, presso la tomba di Ronald Reagan, accanto al cortile del parlamento europeo o in quello del quartier generale della CIA in Virginia. Sono le residenze dei vincitori della guerra fredda, che espongono, con il Muro, il trofeo della loro vittima: il "comunismo".

L’ambasciata tedesca a Kabul è il primo caso di una rappresentanza tedesca in un paese occupato, anche dalle truppe tedesche stesse, dal 1945; persino nel 1968, quando le truppe sovietiche, ungheresi, polacche e tedesco-orientali invasero la Cecoslovacchia per reprimere la Primavera di Praga, quelle ultime non effettuarono che simboliche manovre militari ai confini: se lo spettro di una domanda di trasformazione era difficile da gestire nell’est Europa, a maggior ragione lo sarebbe stato quello di un esercito tedesco di nuovo in giro per il vecchio continente. A quarant’anni di distanza l’edificio di Kabul dimostra, come molte altre cose, che sono diversi i fantasmi che "l’occidente" è convinto di avere ucciso, anche se la morte e la sollevazione interna, e l’aggirarsi di qualche elemento ostile all’interno dei suoi confini (globalizzati), sono a loro volta duri a morire. Non a caso l’ambasciata, colpita diverse volte, negli ultimi anni, dagli attacchi dell’insurrezione, è protetta e corazzata con un sistema di muri, gli stessi che fanno della capitale afgana la più murata al mondo, e forse della storia: ogni strada, ogni incrocio, ogni edificio è blindato da checkpoint protetti da fortificazioni, e l’altezza dei muri che attorniano gli edifici del centro, fino alla fortezza del quartier generale della NATO, indica il grado di importanza e potere dei loro inquilini.

È una storia tutta costellata di fantasmi, di ricordi o ripetizioni, di spavento e angoscia, e di cerimonie che sembrano riti espiatori. Era iniziata, nell’anno del caos rivoluzionario in Europa, nel 1848, con il Manifesto di Marx ed Engels: "Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del comunismo". Davvero due uomini di scienza e di filosofia credevano ai fantasmi? Il termine stesso "comunismo", in realtà, non era stato scelto dai due autori o dai rivoluzionari, ma dalle aristocrazie e dalle borghesie terrorizzate dagli scioperi e dalle barricate, che – riferendosi alla messa in comune di tutti i beni, predicata fino ad allora solo da alcune minoranze religiose – esclamavano: "Questi vogliono il comunismo!". Per questo, anzitutto, uno spettro: qualcosa che fa paura e che tiene svegli, che potrebbe presentarsi da un momento all’altro, rompendo le celebrazioni di qualsiasi Santa Alleanza, di ieri e di oggi, e tanto più perché non si identifica con un sistema politico o economico ma è, molto più semplicemente, una minaccia.

Proprio per questo in questo secolo e mezzo di comunismi vincenti e perdenti, morti, risorti e risepolti, nascosti dietro alle barricate o all’uniforme di una polizia segreta, ospiti indesiderati delle città e delle campagne, delle guerre civili e di quelle mondiali, soprattutto delle epoche in cui non dovrebbero più esistere, non si è mai dato, propriamente, qualcosa come questo: il "comunismo". Certo la scuola, l’accademia e il potere politico-mediatico hanno associato in modo organizzato e sistematico il nome con una cosa, ciò che tecnicamente – e a sua volta discutibilmente – si chiama "socialismo reale": un insieme di stati, partiti e governi che hanno gestito la vita pubblica nel dopoguerra in parte dell’Asia e dell’Europa. Ma il mondo è stato attraversato da ben altro è ben più di questo, prima e dopo 1989, e persino attraverso e grazie alla caduta del Muro. Tradotto in mille lingue e dialetti, esportato dai deserti alle metropoli, dai mari alle montagne, declinato al maschile, al femminile o persino fuori da questo binomio, a est e a ovest, compreso come scienza o utopia, presente nei ricordi dei vecchi e nelle speranze dei giovani, sogno pacifico e sanguinoso a un tempo, terribile problema teorico ad ogni capo del globo, il comunismo sarà sempre, e semplicemente, inesauribile, invincibile, inattaccabile.

Perché non si può uccidere uno spettro. Si può sì cannoneggiare chi chiede il pane, mitragliare chi attacca l’occupazione militare, umiliare chi prega, censurare chi scrive; si può certo elevare una menzogna – "ariana" o "occidentale" che sia – a razza superiore, deportare le masse e torturarle, sterminarle nei forni crematori; si può impedire lo sciopero, bloccare la manifestazione, emanare una riforma o una finanziaria; ma il fantasma, per antonomasia, non lo si può uccidere mai. Lo spettro ritorna sempre, perché così "funziona", spietato come una macchina, uno "spirito" che vive anche dentro le macchine. Oggi, certo, si stappa lo spumante (per lo champagne si aspetta, da secoli d’altronde, la "fine della crisi"), si osservano i fuochi d’artificio, si ascolta la televisione e si afferma ancora una volta, col tono ansiogeno appena celato dai sorrisi dei mezzibusti, che il comunismo è morto. Già allora, nel 1989, l’insistenza nel decretare la morte della minaccia, la ripetizione ossessiva dei fotogrammi berlinesi, le elegie ad memoriam dello spettro deceduto suonavano sospette: come scrisse lo scrittore francese Jacques Derrida, una congiura era in atto contro il comunismo – una congiura contro l’anima di tutte le congiure – ma la sua intonazione politica nascosta era, inconfessabilmente, già allora quella di scongiurare il suo ritorno.

Ma ancora una volta, il ritorno di cosa? Nulla, nella storia, ritorna, e non certo perché l’ha scritto Marx; non i modelli politici e sociali, non i regimi, non i movimenti. Tranne, forse, qualcosa che col nulla è imparentato, nel senso che si aggira pur non essendo una persona, un oggetto, e tantomeno un angelo, e che tuttavia a modo suo "esiste". Altrimenti, come spiegheremmo la rabbia che agita la Palestina, la furia che non cessa di inquietare il Sudamerica, i conflitti sociali in Cina, le scelte dei milioni che si mettono in viaggio, lo sguardo trasognato di miliardi di persone per ciò che, addirittura, si insinua nel sorriso o nello sguardo di Obama? Rabbia e speranza, nel pianeta, sono incarnazioni di questo ospite inatteso e sgradito per chi è al potere, anche quando è il rivoluzionario vincente, o l’ultima versione di un sogno americano. Un ospite che è prodotto da chi contro di esso pensa di poter congiurare, da chi alza i nuovi Muri per tenerlo lontano, da chi costruisce film e immagini del fantasma pensando di poterlo vendere, e così potersene liberare.

In questo senso il 1989 è stato il trionfo del fantasma; e non soltanto perché fu il frutto di decennali lotte operaie e conflitti sociali ricchissimi a oriente, di cui non a caso la storiografia si è ancora, e per un paradosso solo apparente, molto poco occupata. Ne fu il trionfo perché fu un "evento fantasma", un episodio spettrale perché nessuno, in realtà, raccontò mai cosa avvenne laggiù, e la musica e le immagini hanno preso il posto delle parole e della narrazione, come se il 1989 non fosse altro, alla fine, che un affresco mediatico dell’occidente (e non lo era, ma l’occidente non lo sa). Quale genere di affresco fu venduto ai consumatori televisivi occidentali, in quegli anni, mentre già gli affreschi del Muro, i graffiti, venivano messi all’asta? Un affresco rivoluzionario, una nuova "libertà che guida il popolo", l’immagine di una sommossa o di una massa contro un potere e uno stato. Non è stato forse il tentativo di raffigurare il fantasma, nel momento in cui si festeggiava il suo assassinio? Il potere tenta da allora di appropriarsi anche del dissenso, della rivolta, di farne una merce in vendita, con il necessario corollario di censura reale, addomesticamento e banalizzazione.

In qualche modo, e in molti sensi, il 1989 appartiene al fantasma: noi festeggiamo anche oggi, come ogni giorno, come ogni minuto, il suo compleanno; ma quando avremo finito questo editoriale torneremo a leggere e a scrivere, a creare e a organizzare, perché il fantasma siamo anche noi. Torneremo subito a propiziare altre sommosse e altre masse contro i poteri o gli stati, contro Muri che dovranno cadere, e a dar loro voce e scrittura; perché siamo cresciuti nel mito di una libertà fantasma, di una democrazia apparente, di un’eguaglianza di facciata; perché ci hanno mostrato le immagini del 1989 tutta la vita, spiegandoci che gli altri venivano da noi perché noi siamo felici, ma oggi annegano quelli che vengono da noi, e noi di questo non siamo felici. Torneremo a scrivere dei conflitti e delle lotte sociali perché ci hanno detto che il conflitto e lotte non ci sarebbero state più, ma non è stato così. Infoaut "lo dimostra". L’augurio che facciamo a tutti in questo giorno di celebrazioni è di non smettere mai di essere una minaccia, colma di intelligenza rivoluzionaria, contro i "Nuovi padroni del Muro".

 
tratto da InfoAut 
 
 
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