Abu Omar: Omertà di stato e connivenza. Cosa nascondono Prodi & Co.?

Milano – In Italia quando si parla di segreti di stato, si parla sempre di servizi segreti deviati, di connivenze e terrorismo istituzionale. Lo confermano le indagini e l’omertà dei politici. Ecco la vera storia. Armando Spataro,
procuratore aggiunto, ha letto stamane il decreto d’archiviazione disposto dal
gip di Brescia nei confronti dei giudici milanesi che indagano sui rapimenti
illegali compiuti dalla Cia in combutta con i servizi segreti italiani ed europei.
“le risposte pervenute da Romano Prodi in ordine al presunto segreto di stato
relativo al sequestro di Abu Omar, non sono chiarificatrici”.  Spataro ha sottolineato più volte come
"l’ambiguità e l’incertezza sul segreto di Stato si sia riflettuta dalla
Procura di Milano come a quella di Brescia". Il magistrato ha parlato poi
di una "situazione strumentale che ha determinato un conflitto di
interessi tra poteri dello Stato".

La storia di Abu Omar:

Abu Omar, la verità gli italiani con la Cia

Un maresciallo dei carabinieri prese parte al sequestro dell’imam a
Milano. E parla di un commando con molti italiani. Ecco la svolta clamorosa
nelle indagini sull’operazione segreta

di Fabrizio Gatti e Peter Gomez

 Un
filo segreto porta da Palazzo Chigi al sequestro di Abu Omar, l’imam rapito a
Milano e torturato in Egitto. Un segreto nascosto in una telefonata partita
dalla segreteria di Gianni Letta, il potente sottosegretario al quale Silvio
Berlusconi ha affidato la delega per i servizi di intelligence. Pochi giorni
fa, come risulta a "L’espresso", da quel numero interno della
presidenza del Consiglio qualcuno chiama l’ambasciata italiana a Belgrado. Ha
moltissima fretta. Vuole parlare immediatamente con l’addetto alla sicurezza
dell’ambasciatore: un maresciallo dei carabinieri che fino a un anno e mezzo fa
ha lavorato nella sezione antiterrorismo del Ros di Milano. Ed è una
coincidenza curiosa. Perché proprio in quelle ore in Procura a Milano il
maresciallo sta rivelando una delle storie più compromettenti per il governo
Berlusconi e l’intelligence italiana. La vera storia del rapimento di Abu Omar:
il sottufficiale racconta che all’ora X, più o meno le 12 del 17 febbraio 2003,
addosso all’imam bloccato in via Guerzoni, a metà strada tra il centro e la
periferia milanese, non ci sono soltanto gli agenti della Cia. Al sequestro
partecipano anche militari italiani. E lui lo sa bene: perché quel giorno il
maresciallo dei carabinieri, nome in codice Ludwig, è con loro.

Cadono
così tre anni di versioni ufficiali che, una dopo l’altra, hanno sempre negato
la presenza di italiani nel commando che ha rapito Abu Omar. A cominciare dalle
dichiarazioni del ministro Carlo Giovanardi, mandato da Berlusconi l’anno
scorso a rispondere al Parlamento: «Non è neppure ipotizzabile», ha detto
Giovanardi a nome di tutto il governo, «che sia mai stata in alcun modo
autorizzata qualsivoglia operazione di questa specie né, a maggior ragione, il
coinvolgimento nella stessa di apparati italiani». Anche il generale Nicolò
Pollari, direttore del Sismi, il servizio segreto militare, ha sempre smentito
la collaborazione dell’Italia. Così come il generale ha ripetuto poche
settimane fa a Bruxelles davanti alla commissione del Parlamento europeo che
indaga sulle operazioni segrete della Cia: «Noi non abbiamo assistito tali
comportamenti e nemmeno partecipato né appoggiato questo tipo di attività».

Il
maresciallo Ludwig non è il solo italiano coinvolto nell’inchiesta. Altri
stanno per essere identificati come complici o testimoni: dovrebbero essere
carabinieri, agenti dei servizi segreti oppure, ipotesi più remota, 007 privati
ingaggiati per l’operazione. Ma il sottufficiale è al momento l’unico a
rischiare già adesso il processo e il carcere per sequestro di persona. Perché
il mese scorso il ministro della Giustizia uscente, Roberto Castelli, si è
definitivamente rifiutato di presentare agli Usa la domanda di estradizione dei
dipendenti della Cia in servizio in Italia: sono i 22 agenti americani del
commando che ha rapito Abu Omar per i quali il procuratore aggiunto di Milano,
Armando Spataro, già un anno fa aveva chiesto l’arresto. Il ministro ha anche
respinto la richiesta della Procura di Milano di diffondere all’Interpol la
nota per le ricerche internazionali. Grazie a Castelli, gli 007 della Cia
potranno così andare ovunque nel mondo senza correre il rischio di essere
fermati e consegnati all’Italia. Come pubblici ufficiali, i rapitori rischiano
condanne fino a dieci anni. Più le aggravanti per le torture subite dall’imam.
Ma a questo punto i carabinieri e gli altri italiani coinvolti nell’indagine
manterranno la consegna del silenzio con la prospettiva di essere gli unici a
pagare? Forse è proprio questo il motivo della misteriosa telefonata partita
dal numero interno di Palazzo Chigi.

Ludwig
deve il suo nome in codice ai capelli biondi e al fisico da tedesco. Dopo il
sequestro di Abu Omar ha fatto carriera: è stato selezionato per il posto di
addetto alla sicurezza dell’ambasciata a Belgrado, incarico a volte riservato
ad agenti del Sismi. Ma è nella sezione antiterrorismo del Ros di Milano che
cominciano e finiscono i suoi giorni del Condor: la partecipazione a quella che
qualcuno, per il suo soprannome, già chiama “operazione Ludwig”. La sezione
antiterrorismo è la stessa da anni in prima linea nella caccia ai terroristi di
Al Qaeda. E, con la Digos
di Milano, è tra le squadre di investigatori più attive nel sud Europa. Tanto
che, dopo l’attacco dell’11 settembre, la Cia è spesso negli uffici del Ros, nella grande
caserma in via Lamarmora a un isolato dal Palazzo di Giustizia. L’agente
americano in contatto con i carabinieri è Robert Seldon Lady, 52 anni, nato in
Honduras e capo della Cia a Milano. È un uomo massiccio, con la barba appena
sbiancata dall’età e le mani grandi come badili. Lady, Bob per gli amici, è
nell’elenco dei 22 agenti consegnato al ministro Castelli: ha lasciato l’Italia
giusto in tempo per evitare l’arresto.

Nelle
indagini contro Al Qaeda, tra il 2001 e il 2004 Bob si mette a disposizione
degli investigatori italiani e fornisce notizie, riscontri fotografici,
microspie supertecnologiche. Si fa anche molti amici sia nel Ros, sia nella
Digos, sia tra gli agenti dei regimi nordafricani in azione a Milano. Nel 2002,
qualche giorno prima di Natale, li invita tutti a un party. Appuntamento nella
cascina ristrutturata che Bob ha comprato tra le colline di Penango, in
provincia di Asti. Gli mancano pochi mesi alla pensione e con la moglie ha
deciso di rimanere in Italia dopo il congedo. Sotto il cielo grigio di quel
pomeriggio, agenti segreti e investigatori dell’antiterrorismo sfilano nel
breve viale che dal cancello porta in casa. Abbracci, strette di mano. Gli
auguri e i bicchieri di vino rosso del posto. Da quanto risulta a “L’espresso”,
il maresciallo Ludwig è tra gli invitati. Di Bob Lady è un carissimo amico. C’è
anche un capitano della stessa sezione del Ros. Un ufficiale che poche
settimane fa il Sismi ha scelto tra gli aspiranti 007.

Possibile
che in tre anni non si sia mai accorto che, con il sequestro di Abu Omar, un suo
maresciallo e forse altri suoi dipendenti si erano messi agli ordini di un
servizio segreto straniero? Il giorno in cui tutti gli 007 di Milano si
ritrovano nella cascina di Penango mancano tre mesi alla guerra in Iraq. I
piani di invasione sono pronti. E forse in un cassetto dell’ambasciata
americana a Roma è pronta la relazione per ottenere da Washington il via libera
all’operazione Ludwig. Il bersaglio ha un nome lungo: Hassan Moustafà Osama
Nasr, nato ad Alessandria d’Egitto il 18 marzo 1963. Nelle moschee di viale
Jenner e via Quaranta a Milano lo conoscono come Abu Omar. Il ministero
dell’Interno gli ha concesso lo status di rifugiato politico. E la Digos lo sta pedinando da
tempo: l’imam è sospettato di reclutare combattenti e kamikaze da inviare in
Iraq per la guerra ormai imminente. Forse quel giorno di dicembre, nella sua
casa piemontese, Bob ha già spiegato a Ludwig le intenzioni della Cia. Forse
gli ha già raccontato del piano di Abu Omar di far esplodere il pullman con gli
allievi della Scuola americana di Milano: un piano di cui però la Digos non ha mai trovato
riscontri. Bob e Ludwig si rivedono ancora nell’ufficio del Ros. E poi a cena a
casa di Ludwig, ogni volta che Bob deve rimanere a Milano per lavoro. Il 16
febbraio 2003, da quanto risulta a “L’espresso”, vanno insieme in via Guerzoni.
È una domenica, c’è poco traffico. Forse passano davanti al palazzo in via
Conte Verde 18 dove Abu Omar abita con la moglie Nabila Ghali, in un
appartamento messo a disposizione dalla moschea di viale Jenner. Alla fine del
sopralluogo Bob consegna a Ludwig un cellulare. E gli ripete cosa dovrà fare.
Il maresciallo del Ros deve fermare Abu Omar e chiedergli i documenti. Tutto
qui. Oppure intervenire con il suo tesserino dei carabinieri nel caso
l’operazione fosse ostacolata dall’improvviso controllo di una volante o dei
vigili urbani. Gli agenti della Digos invece non sono più un problema: i
pedinamenti di Abu Omar sono stati sospesi da almeno due mesi.

La
mattina dopo, il 17 febbraio, Ludwig è in ufficio. I suoi colleghi sono
impegnati in un servizio a Cremona. Lui resta a Milano e all’ora stabilita –
racconta – va all’appuntamento in moto. Deve aspettare il contatto in piazzale
Maciachini. Si ferma un’auto. L’uomo al volante, l’unico a bordo, lo chiama con
il nome in codice. È sicuramente italiano. Ludwig sale. Fanno tre isolati,
girano in via Guerzoni e vedono subito Abu Omar arrivare a piedi. È l’ora X.
Come in un film di spionaggio Bob Lady, regista dell’operazione, non si fa
vedere. Il maresciallo scende dall’auto e chiede i documenti. L’imam dice di
non avere capito. Lui ripete la domanda in inglese. L’imam consegna il
passaporto. All’improvviso, da un furgone parcheggiato lì accanto, esce una
squadra di uomini. Forse c’è qualche americano. Ma chi parla impreca in
italiano, senza accento straniero. Prelevano Abu Omar, che grida, chiede aiuto.
Il maresciallo Ludwig si sposta per non essere travolto. In meno di 30 secondi
il furgone parte verso la periferia. Il maresciallo resta immobile, con il
passaporto di Abu Omar in una mano e il cellulare di Bob Lady nell’altra. Butta
tutto dentro il finestrino dell’auto che l’ha portato fin lì. L’italiano al
volante accelera e se ne va. Poco dopo squilla il cellulare personale di
Ludwig. È un ufficiale dei carabinieri che vuole avere notizie del suo
dipendente. Forse è solo una coincidenza. Ma le antenne dei telefonini sui
tetti del quartiere registrano: posizione, numeri, durata delle conversazioni.
Dall’altra parte della strada una donna egiziana vede gli 007 in azione e racconterà
tutto a un’amica. Nel giro di due giorni la comunità araba a Milano sa che Abu
Omar è stato rapito. Viene presentata la denuncia alla Digos. L’indagine sembra
facile: basterebbe chiedere alla Telecom e alle altre compagnie i dati sul
traffico telefonico nella zona all’ora del rapimento. Ma i risultati arrivano
soltanto in ottobre. E non servono a nulla perché non riguardano le telefonate
del 17 febbraio, ma quelle del 17 marzo. Dopo otto mesi bisogna ricominciare le
indagini daccapo. Adesso i nomi di altri italiani in azione con la Cia potrebbero ancora
nascondersi dietro i numeri di telefonino. Soprattutto quelli rimasti senza
intestatario. Una copertura ottenuta grazie alla complicità di alcune compagnie
telefoniche. Come ha scoperto “L’espresso”, centinaia di schede Sim vengono
periodicamente consegnate ai servizi segreti senza essere registrate. Numeri
fantasma da usare e buttare dopo ogni operazione sporca.

 

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