Call center: profitti e precarietà corrono sul filoColsenter

Il settore dei call
center viene spesso portato ad esempio come il nuovo orizzonte della
‘new economy’. Nel mondo si stimano circa 10 milioni di addetti ai
call center. Sicuramente è molto redditizio: solo per il 2007,
il Sole-24 Ore annunciava ‘un miliardo di ricavi’ per le 655 aziende
in outsourcing e per quelle ‘in house’ che sfruttano complessivamente
più di 300.000 lavoratori e lavoratrici. Un incremento del
‘giro d’affari’ del 13,5% con punte elevatissime per i ‘colossi’ del
settore, come i gruppi Almaviva, Transcom Worldwide, Omnia Network,
Comdata, Raf, E-Care, ecc, ma con indubbi guadagni anche per quelle
miriadi di società (circa il 70%) che impiegano meno di 50
addetti; e per il 2008 è previsto un ulteriore aumento del
15%. Nelle società di outsourcing il numero delle postazioni
per operatore sta aumenando di circa il 6% l’anno e si stima che alla
fine del 2009 il numero delle postazioni in outosurcing pareggerà
quelle in house. Al di là dei soliti piagnistei di Assocontact
e di Asstel, la Circolare Damiano e le famose ‘conciliazioni’ hanno
fortemente favorito i ‘signori dei telefoni’. Sappiamo bene però
a che prezzo? Nei call center le condizioni normative e contrattuali
spesso sono molto diverse: possiamo lavorare come Co.Co.Pro, come
‘somministrati’, a tempo determinato oppure, dopo una lunga odissea
nella giungla dello sfruttamento, avere uno straccio di contratto a
tempo indeterminato; oppure possiamo essere inquadrati nel CCNL delle
TLC, dei Metalmeccanici, del Commercio, oppure, quando siamo più
fortunati, del credito o dei poligrafici (evento rarissimo!). Eppure,
alla fine, ciò che unisce è sempre lo stesso:1. la
precarietà imperante, ossia l’impossibilità di
determinare per sé una traiettoria di vita stabile, dove
garantirsi alcune necessità primarie (mangiare, avere una
casa, un mezzo di trasporto, poter terminare i propri studi, ecc.), o
dedicare del tempo alla famiglia (per chi ce l’ha), agli amici, agli
affetti, alle proprie aspirazioni culturali, sportive di svago,
insomma a poter fare una vita ‘normale’ e dignitosa. Impossibilità
dovuta alla continua spada di Damocle di interminabili rinnovi di
contratti a termine nella speranza di un’assunzione a tempo
indeterminato che non arriva quasi mai. E quando arriva, dopo poco
arriva magari la mazzata di una bella esternalizzazione o
delocalizzazione ed ecco che devi comunque ricominciare la giostra
(agenzia, contrattino, vari rinnovi, assunzione a tempo determinato
con l’azienda, vari rinnovi…);2. I salari da fame, che ormai non ci
permettono di arrivare neanche alla terza settimana. Nella maggior
parte delle aziende, al di là degli aumenti ridicoli degli
ultimi rinnovi – siano essi di TLC, sia dei Metalmeccanici – non
esistono contrattazioni di secondo livello, tanto meno accordi su
premio di risultato o affini, così che il divario fra il costo
della vita e gli stipendi che percepiamo è sempre più
drammatico;3. Condizioni di salute che vanno sempre più
peggiorando, in ragione dell’aumento dei tempi di risposta, della
pressione subita dai clienti e soprattutto dai capi, e in ultimo
dell’assoluta mancanza dei minimi criteri a tutela della sicurezza
dell’operatore (illuminazione, dimensioni della postazione,
ergonomicità delle sedie, malfunzionamento dei PC e degli
accessori). Le conseguenze sono stress (i lavoratori dei call center
sono quelli che fanno più ricorso a psico-farmaci), gastriti,
cefalee, disturbi muscolo-scheletrici al metacarpo e alla colonna
vertebrale. Le aziende spesso cercano di blandirci col solito adagio
del ‘stiamo tutti sulla stessa barca’, e, con uno snervante quanto
spesso incomprensibile ricorso ad anglicismo, vorrebbero farci
credere che lavorare nei call center è sinonimo di sicurezza,
di ambiente familiare e di possibilità di carriera. I
burocrati sindacali ci vogliono illudere che delegando ad essi la
tutela dei nostri interessi otterremo qualcosa in più, quando
spesso ci tocca tirare fuori unghie e denti per non veder peggiorata
la nostra situazione. Con una situazione del genere è facile
cadere nella filosofia del ‘si salvi chi può’, del ‘tanto
questo è un lavoro di passaggio’, del ‘fammi leccare il culo a
questo o quel capo in modo che così mi assumono’. Sono
mentalità destinate purtroppo al naufragio, o che se ottengono
risultati è veramente per pochi/e, a scapito di molti/e. Il
blog di colsenter nasce proprio su queste esperienze concrete, che
sono le esperienze di tutti noi, ma che spesso non necessariamente
sono esperienze negative. Nasce per cominciare a scambiarci
informazioni, a dirci che tutte le porcate che queste aziende fanno,
e che governi e sindacati compiacenti avallano, possono essere
contrastate. Che un padrone non ha il diritto di cacciarti via dopo
che hai lavorato per lui per anni; che non ha il diritto di cederti a
un altro padrone per ricavarne qualche milione di euro ed andarlo a
investire nelle borse asiatiche; che non ha il diritto di pagarti
meno e di discriminarti sugli orari perché sei donna e magari
anche madre; che non ha diritto di appaltare o di avere in appalto
una pezzo della filiera produttiva perché così ci
guadagna di più. Se si conosce, si può essere
consapevoli dei nostri diritti e degli strumenti da utilizzare per
affermarli; se si conosce, si è più liberi; se si
conosce ci si unisce e ci si difende meglio. Precarietà,
salario, salute: su queste tre parole, che per noi hanno ancora una
valenza concreta, vogliamo informarci e contro-informare,
organizzarci e difenderci, sul piano legale, sindacale, della lotta,
collegarci tutti/e insieme per ‘scollegare’ i fili di chi pensa che
può impunemente lucrare sul nostro lavoro e sulla nostra vita.
Cominciamo a parlarne: colsenter.noblogs.org

PRIMA RIUNIONE A TORINO,
C/O CUB CORSO MARCONI 34 SABATO 5 APRILE ALLE ORE 16.30

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