è svolta lunedì 3 dicembre, presso la Facoltà d’Ingegneria dell’Università di Pisa, la “Giornata di
Studio – Energia Nucleare: Formazione,
Ricerca e Sviluppo Industriale”, con l’obiettivo di “di presentare alla
classe politica del nostro Paese i punti di forza nei settori della ricerca,
della formazione e dell’industria in campo nucleare”. Organizzata dalla
Facoltà, dal Dipartimento di Ingegneria meccanica, nucleare e della produzione,
con la collaborazione di ATI (Associazione Termotecnica Italiana) e UIT (Unione
Italiana Termofluidodinamica), la
manifestazione si è avvalsa del patrocinio di associazioni e consorzi
interuniversitari: il CIRTEN, ovvero (dall’acronimo) il Consorzio InterUniversitario per la Ricerca Tecnologica sull’ Energia Nucleare (che coordina i corsi
di laurea dell’area nucleare delle Facoltà di Ingegneria di Pisa, Palermo, Roma
e dei Politecnici di Milano e Torino) e l’ENEN (European
Nuclear Engineering Network). L’AIN (Associazione Nucleare Italiana) è stato
l’altro patrocinatore della giornata, strutturata in 3 sessioni, “La formazione in ingegneria nucleare in
Italia e in Europa” – “La ricerca nel settore dell’energia nucleare da
fissione” – “L’industria italiana nel settore dell’energia nucleare”, al
termine dei quali si è svolta una tavola rotonda con la partecipazione di
esponenti del mondo politico (fra cui il sen. Modica dei DS e l’on. Urso di AN).
Nelle prime due sessioni
si è fornita una presentazione delle attività accademiche e scientifiche degli
atenei italiani consorziati nel CIRTEN (personale, studenti, strutture
didattiche dei corsi di laurea, specializzazioni), e sulle ricerche in corso
all’ENEA, nonché sulle attività dei maggiori atenei dei paesi europei in cui è
viva la ricerca sul nucleare. Si è cercato, in sostanza, di fare il punto della
situazione dopo circa vent’anni dall’incidente di Chernobyl e dall’abbandono
della produzione di energia nucleare da fissione che il referendum del 1987 ha
sancito in Italia. In linea col trend europeo, anche in Italia si è osservato
un calo di studenti (e laureati) dei corsi di laurea e agli istituti di
Ingegneria nucleare, tanto che oggi sono circa 100 gli iscritti a tali corsi di
laurea nel nostro paese. Dopo il 1987 la didattica è stata anche in parte
“reinventata” (anche solo nei nomi da dare ai percorsi di laurea) e orientata
verso materie attinenti la sicurezza o l’impatto ambientale dei sistemi
energetici. Tutto questo per via del calato interesse, dovuto a un diffusissimo
“sentire” popolare ostile nei riguardi di una tecnologia che, oltre ad aver
provocato incidenti gravi, ha fatto e fa paura e su cui ancora non sono state
sciolte alcune riserve circa la sicurezza, il destino delle scorie e il collegato
problema della proliferazione di armi atomiche.
Va detto altresì che la
ricerca punta alla specializzazione proprio di problemi legati alla sicurezza
degli impianti (di produzione e di preparazione del combustibile nucleare), in
particolare in sede di progettazione di quelli di “nuova generazione”, in cui
la sicurezza è garantita (ad esempio) dalla ridondanza dei sistemi di
contenimento, quali quelli di risposta in caso di incidente di grave perdita di
fluido refrigerante.
La terza sessione è stata
un “outline” sui gruppi industriali italiani che potrebbero (nell’attuale stato
delle cose) essere in grado (“politica volendo”) di far “ripartire” la
produzione di energia atomica nel nostro paese. Società multinazionali italiane
quali Enel, AnsaldoEnergia, Sogin partecipano alla costruzione e alla gestione
di impianti in altre nazioni (Romania, Slovenia, Spagna, Repubblica Ceca) e si
occupano del “decommissioning” (Sogin), cioè dello smantellamento di impianti
(fra cui quelli italiani) e messa in sicurezza dei siti. Com’è noto, non è
possibile cessare dall’oggi al domani l’attività di un impianto nucleare, in
cui il “combustibile” continua a “bruciare” per parecchi anni prima di
“consumarsi” (ossia, l’uranio presente nelle barrette continua a fissionare a lungo
producendo notevoli quantità di calore, per cui è comunque necessario il
funzionamento delle parti dell’impianto che garantiscono lo smaltimento della
potenza termica prodotta).
È fondamentale a questo
punto fare il punto su alcuni fatti generali e tecnici circa la situazione e i
tanti problemi connessi all’energia atomica. La gran parte degli interventi, di
tecnici e industriali, ha avuto come concetto (o “sentimento”) generale che il
ritorno all’energia nucleare in Italia è di fondamentale importanza ed urgenza,
visti soprattutto i limiti sulle emissioni di anidride carbonica imposti dal
protocollo di Kyoto; l’industria e il mondo della ricerca italiani, salvo
reintegrare i numeri della forza lavoro specializzata, sarebbero inoltre in
grado di affrontare questa missione. È stato anche sottolineato come sia ancora
molto radicato nella popolazione il rifiuto per questa tecnologia e di come sia
possibile, ma difficile, raggiungere la fiducia collettiva attraverso una “informazione
adeguata” sulla nuove tecnologie e sul superamento dei problemi degli impianti
dell’epoca di Chernobyl. In sostanza, entrando nel vivo del dibattito sul
problema energetico, si è voluto affermare in questa iniziativa che, pur avendo
abbandonato per scelta popolare la “produzione” di energia dal nucleare,
l’Italia è ancora in grado, industrialmente e in termini di “know-how”, di
riproporre un cammino di riavvicinamento a questa forma di produzione in tempi brevissimi
(anche industrialmente, pochi anni secondo alcune proposte di legge parlamentari
in presentazione).
La realtà è che tutto
questo deve scontrarsi con il rifiuto di gran parte dei cittadini, soprattutto
di quelle generazioni che hanno vissuto sulla loro pelle i danni su scala
europea provocati dall’incidente di Chernobyl.
È ormai noto che la
produzione di energia elettrica in una centrale nucleare non passa attraverso
la combustione di sostanze e quindi non produce gas nocivi o clima-alteranti
immessi poi in atmosfera (come avviene nella centrali termoelettriche convenzionali):
questo argomento, peraltro veritiero, è una delle bandiere di chi vuole a tutti
i costi il ritorno “all’atomo”, insieme all’altro che ci ricorda come l’Italia
sia l’unica nazione a comprare dall’estero circa l’80% dell’energia primaria
che consuma (anche questo è purtroppo vero).
Ciò
che affascina da sempre del nucleare è che la stessa quantità di energia che
può essere prodotta (in ordini di grandezza) da un chilogrammo di uranio ha
come equivalente energetico migliaia di tonnellate di carbon fossile bruciato
in una centrale convenzionale. In realtà si devono fare i conti con tutto il “ciclo
di vita” della tecnologia industriale che sta alla base del nucleare, anche in
termini energetici: da anni si comincia, infatti, a porre il problema del rapporto
fra l’energia spesa per costruire l’impianto, mantenerlo, stoccare i
combustibili e le scorie, trasportare i materiali e quella poi prodotta durante
la vita utile di una centrale. Secondo alcuni calcoli quest’ultima quantità di
energia sarebbe inferiore. Si potrebbe obiettare che questo avviene perché si
usa solo una piccola parte dell’energia potenzialmente ottenibile da una
barretta di uranio, ma gli impianti hanno dei livelli di funzionamento che sono
limitati superiormente dalle elevate temperature e pressioni, oltre che dai
sistemi di sicurezza e prevenzione di guasti.
Il
settore nucleare non è in gran crescita a livello mondiale, ciò è legato anche
agli enormi investimenti richiesti, copribili solo da Stati, o grandi
multinazionali, o società a partecipazione statale, anche questo è un aspetto
da tener presente soprattutto in vista di un coinvolgimento di società private
in progetti del genere.
Le
centrali nucleari a fissione hanno innegabilmente un grosso impatto ambientale,
dal punto di vista dell’inquinamento termico dei corpi idrici usati per il
raffreddamento degli impianti, dell’occupazione di suolo, della produzione di
scorie e sostanze tossiche. Il materiale fissile “consumato”, cambiando specie
chimica per le reazioni subite, costituisce una “scoria”; le strategie di
solito adottate per disfarsene sono quelle della “vetrificazione” (o resa in
ceneri poi vetrificate) e messa in sicurezza in appositi siti quali miniere
esaurite di salgemma (impermeabili alle radiazioni) – si ricordi a questo
proposito il caso di Scansano e il forte rifiuto della popolazione locale di
far diventare la loro comunità il “cimitero” dei residui delle centrali
nucleari italiane. Si sta affrontando, in ambito industriale e scientifico, il
problema del riutilizzo energetico delle scorie, che vengono fatte rientrare
“dalla finestra” nel ciclo di produzione in reattori di nuova concezione capaci
di smaltirle “ribruciandole”. Alcune nazioni preferiscono invece lasciare la
gestione delle scorie agli apparati di sicurezza, che se ne servono per
esperimenti nucleari o costruzione di armi. Si può immaginare quali siano le
conseguenze di comportamenti sbagliati nella gestione delle scorie in termini
di prolificazione di armamenti nucleari. È devastante (in termini di vittime e
di contaminazione) il potenziale distruttivo delle cosiddette “bombe sporche”,
confezionabili da gruppi terroristici con piccole quantità di scorie o
combustibile nucleare.
Una
centrale comporta, inoltre, una grande concentrazione (ovvero “centralizzazione”)
nella produzione dell’energia, che comporta un notevole gigantismo degli
impianti e delle infrastrutture. Questa strategia è tuttavia congeniale e
vincolata al modo di produzione industriale moderno, che necessita (per alcuni
settori, “pesanti” e non) di notevoli quantità di energia e potenza messe in
gioco dalla rete elettrica. I paesi industrializzati dotati di impianti
nucleari (che vengono mantenuti sempre in regime di produzione costante e molto
poco modulabile) possono perciò contare su una “base” quasi sempre regolare ed
un approvvigionamento energetico garantito. Il modo di produzione industriale
moderno è quello che ci permette gli attuali livelli di vita e di benessere,
esso ha purtroppo bisogno di notevoli quantità di energia (e degli impatti
ambientali che ciò comporta), nel negare la ripresa del nucleare in Italia è da
tenere tuttavia presente questa questione: quanto siamo disposti a cedere degli
attuali livelli di vita “materiale” raggiunti (e che saranno probabilmente
raggiunti anche da quella fetta di umanità che vive nei paesi in rapido
sviluppo, quali Cina e India) per evitare le minacce sulla sicurezza che il
nucleare, con tutti i suoi potenziali rischi, può (seppure in una remota
ipotesi, per quanto detto sugli studi sulla sicurezza) rappresentare?
Una
prospettiva non ancora considerata in questa sede è il risparmio energetico (che
tecnicamente costituisce la “prima” forma di energia attingibile): una corretta
interpretazione dell’utilizzo dell’energia dalla rete elettrica o del gas
metano per il riscaldamento (o di fonti primarie e secondarie in generale) è la
prima strada per l’uscita dallo schiavismo dalla produzione da fonti con
conseguenze nocive sulla salute, la sicurezza e lo sfruttamento (si veda il
caso dei pozzi di estrazione di gas dai giacimenti sul Delta del Niger).
Le
fonti di energia rinnovabile (eolico, solare, geotermia) possono essere gli ingredienti
del mix energetico ottimale da implementare. Non si vuole certo paragonare la
capacità di sviluppo di potenza e di produzione di energia delle centrali
convenzionali (ad esempio i cicli combinati a gas) ai pannelli solari fotovoltaici
(!), ma si vuole sottolineare come siano in grado di responsabilizzare e
gradualmente limitare l’uso delle fonti primarie in vista del loro prossimo
esaurimento, soprattutto nelle utenze di bassa intensità (e quindi nei casi di
produzione decentrata o distribuita).
Il
nucleare, in questo contesto, costituisce una risposta solo in una prospettiva
di lunghissimo termine, ed in ogni caso non sulle spalle di chi ha sempre
subito sfruttamento, danni alla salute o altri gravi rischi.