Non sembra interessare a nessuno che esistano già le condizioni economiche e tecniche per produrre energia da fonti rinnovabili, abbandonando il ricorso ai combustibili fossili e al nucleare. Non deve stupire, gli interessi dominanti afferiscono allo stesso sistema che non si poteva permettere di denunciare il global warming fino a che i suoi effetti non sono diventati tanto evidenti quanto costosi per la collettività.
Non sembra interessare a nessuno neanche riflettere sull’uso in quanto tale delle risorse energetiche. Il consumo in sé non viene mai messo in discussione, esso è profitto, crescita.
Ma anche questo non deve stupirci, la prospettiva miope si adatta ai potenti che al profitto mirano in ogni istante. Confusamente trattata su ogni giornale, la “questione energetica” viene difficilmente affrontata in quanto tale, essendo per lo più fattaci intuire dalle descrizioni catastrofiche dei suoi effetti (vedi il recente caso dell’uranio nelle acque delle centrali nucleari in Francia) o dalle cure miracolose che gli “esperti di turno” propongono (piattaforma offshore tra Pisa e Livorno, centrali nucleari sparse per il mondo e via discorrendo).
Caro-gasolio 2008. In questa prima metà dell’anno l’attenzione alla questione delle energie è particolarmente elevata, vista la superimpennata del prezzo del petrolio: l’oro nero ha infatti raggiunto il record storico di quasi 147 dollari al barile.
In un mese il prezzo è salito del 5,5%, in un anno l’aumento complessivo è stato del 31,2%. Gli incrementi di prezzo risultano ormai difficilmente arginabili visto che per circa un decennio, dalla metà degli anni Novanta, le grandi compagnie petrolifere e gli Stati produttori, di fronte a prezzi in discesa costante per effetto di una offerta spesso superiore alla domanda hanno investito pochissimo nella ricerca di nuovi giacimenti, nel miglioramento tecnologico e nella capacità di raffinazione (fondamentale per valorizzare i greggi meno costosi), oltre ad aver accettato logiche di speculazione finanziaria.
In semplici termini economici, è importante individuare un circolo vizioso: più il petrolio sale, più il pessimismo si diffonde nei mercati, deprimendo azioni e dollaro.
Ma anche il contrario può essere vero: più le Borse e il biglietto verde scendono, più il petrolio – e le materie prime in generale – diventano attraenti per gli investitori, che quindi accelerano gli acquisti, provocando nuovi rialzi di prezzo.
La Coldiretti stima in 250 milioni di euro all’anno il maggiore costo per le imprese agricole dovuto al caro gasolio che oggi viene pagato nelle campagne quasi il 30 per cento in più rispetto allo scorso anno. L’agroalimentare, come la pesca, e’ – sottolinea la Coldiretti – fortemente condizionato dal caro petrolio che incide fortemente sulle fase produttiva, dove il gasolio ha sostituito quasi completamente la benzina, per le lavorazioni dei terreni e la trasformazione dei prodotti, ma anche per la conservazione degli alimenti ed il trasporto, con l’86 per cento delle merci in Italia viaggia ancora purtroppo su strada.
Le conseguenze del caro-gasolio non si sono fatte attendere e l’enorme portata della crisi è stata immediatamente percepita. Sciopero compatto dei pescatori a Genova, La Spezia e Viareggio a inizio Giugno, blocchi e presidi di protesta a Roma, Imperia e Salerno.
Scioperi di camionisti in Spagna e Portogallo, dove ci sono state addirittura due vittime tra gli scioperanti, sulle strade dove avevano luogo i blocchi. In Francia i camionisti hanno seguito i pescatori nello sciopero, bloccando la circolazione dei tir.
Scontri tra pescatori e polizia sono avvenuti a Bruxelles, durante una manifestazione contro il caro-greggio. In Italia, il Ministro alle Infrastrutture e Trasporti Matteoli, visto il clima, ha pensato bene di proporre una riduzione dei pedaggi autostradali per i ‘padroncini’ come soluzione tampone, che ovviamente non basta agli autotrasportatori. Inutile G8. Più petrolio e più nucleare è, quasi paradossalmente, la richiesta dei Grandi riunitisi la scorsa settimana a Tokyo, in cima a una collina, nel lussuoso albergo Windsor, trasformato in fortezza inavvicinabile, al centro di una no-fly zone di 46 chilometri presidiata da 21mila uomini delle forze dell’ordine.
Corsi e ricorsi storici: il gruppo degli 8 tentava di fronteggiare i problemi globali (aggravati) che portarono oltre 30 anni fa all’organizzazione del forum che diede origine all’attuale G8. Fu nel 1975 che i leader dei cinque Paesi promotori – Usa, Giappone, Francia, Germania e Gran Bretagna -, con la partecipazione anche di Canada e Italia, si incontrarono al castello di Rambouillet per cercare di reagire alla recessione mondiale innescata dalla precedente crisi petrolifera (di qui il nome G7).
G8 inutile principalmente in quanto la capacità di incidere sul mercato economico è pressoché nulla.
Sul petrolio poco può anche l’Opec, nei cui Paesi la produzione è ferma al 17% del totale mondiale pur detenendo essi il 48% delle riserve.
In termini di riserve, le 7 compagnie private (c.d. “Sette sorelle”), fino al recente passato padrone pressoché assolute del mercato, controllano solo il 4,1% del totale e il 16% della produzione mondiale di petrolio, mentre 19 società di Stato dei paesi produttori hanno in mano il 70% delle riserve e il 37% della produzione (da “Mappamondo postglobale”, A. Volpi).
Il peso delle società pubbliche nel campo delle risorse energetiche regna dunque sempre più sovrano, si veda il particolare caso di rinazionalizzazione, preceduto invece da privatizzazione, della società russa Gazprom. Nucleare? No, grazie. Perla del G8 edizione Japan è indubbiamente l’affermazione di Berlusconi “mille nuove centrali nucleari nel mondo”.
Comprendiamo la sindrome di “avere la sua parte”, però ricordiamo al Premier che deve tenere conto di un referendum contro l’opzione nucleare, sulla quale l’Italia, nel passato, si era sempre pronunciata con grande prudenza nei vertici dei Paesi più industrializzati schierandosi spesso insieme alla Germania e al Canada. E i motivi per aver dubbi sul nucleare certo non mancano.
Anzi. Oltre agli evidenti rischi di incidenti che la produzione nucleare porta con sé, è necessario tener conto del costo di decommissioning, ossia di smantellamento degli impianti. La reversibilità degli impianti è un fattore cruciale, in quanto s’intende la possibilità di restituire l’area occupata dall’impianto com’era prima della sua costruzione.
Ad oggi, nessuno è ancora riuscito a “cancellare” una centrale atomica, né a costruire un deposito per le scorie nucleari che possa resistere le migliaia di anni necessarie al decadimento radioattivo del combustibile. Al contrario nel caso dell’eolico e del solare la reversibilità è totale.
Puntare sul nucleare significa inoltre esporsi ad una nuova forma di dipendenza dall’estero, per ottenere l’attore primo delle centrali nucleari: l’URANIO.
Ad oggi, il procedimento alla base dei reattori nucleari e delle bombe atomiche è quello della fissione nucleare, nella quale agente principale è appunto l’uranio.
Ma quanto uranio c’è nel mondo? Poco, molto poco. E’ una risorsa naturale, e come tutte le risorse naturali tende ad esaurirsi se il suo tasso di consumo è maggiore del tasso di rigenerazione.
A differenza del petrolio, è un minerale relativamente abbondante nella crosta terrestre; il problema è che è raro trovarlo sufficientemente concentrato da poter essere considerato "estraibile". Lo dicono le analisi di settore e lo dice il mercato.
Per il centro di ricerca australiano Abare e per l’Agenzia internazionale dell’energia (essa stessa favorevole all’uso dell’energia nucleare), la domanda mondiale di uranio potrà essere soddisfatta solo fino al 2030. La differenza fra produzione e consumo di uranio è stata coperta dal 1980 a oggi smantellando vecchie testate nucleari.
Esso arriva infatti in Europa da diverse regioni, ma essenziale è la produzione russa, tenendo conto anche che le centrali francesi viaggiano oggi quasi interamente usando uranio ottenuto dallo smantellamento di vecchie bombe nucleari russe.
Ora, c’è chi vocifera anche da noi che "dobbiamo tornare al nucleare". Geniale. Già ci troviamo a dipendere dal petrolio e dal gas russo, non ci rimane che affidarci anche all’uranio russo. Meglio prenderne atto delle contraddizioni che il nucleare porta con sé e non farsi troppe illusioni che esso per magia ci risolva tutti i problemi.
Le conseguenze positive di una politica “no oil, no gas”, puntando invece sulle fonti rinnovabili, per l’Italia, ma ancora di più per l’Europa, vanno dunque dall’indipendenza dal ricatto energetico fino al vantaggio competitivo netto rappresentato dallo scegliere fonti energetiche infinite, con costi destinati a scendere, a fronte di chi continuerà a legarsi a risorse dai costi inevitabilmente destinati a crescere, vista la evidente finitezza delle fonti.