Da tempo una parte consistente di mondo è oggetto di violenza militare assoluta, senza che la sofferenza dell’umanità che vi abita sia per nulla considerata dai poteri mondiali. È quella nebulosa a vario titolo definita araba, musulmana, mediorientale ecc. Oggi, dopo l’Iraq e l’Afghanistan, centro del vortice è Gaza. Zona grande un terzo del comune di Roma, ma popolata più di Milano. Che una guerra totale sia condotta in quella concentrazione urbana «con riguardo ai civili» è cosa cui solo le ipocrite cancellerie europee possono far finta di credere.
Qui non si tratta solo di «inadeguatezza» del nostro ministro degli esteri, lo spensierato Frattini. Si tratta di una conseguenza della definizione di Hamas come gruppo terrorista. Poiché i palestinesi di Gaza hanno eletto Hamas, sono terroristi anche loro. Questa è l’idea di fondo, neanche troppo implicita, visibile nelle dichiarazioni del primo ministro ceco, ma anche nelle contorsioni del francese Nicolas Sarkozy. È né più né meno il succo del pensiero strategico israeliano, confortato da Bush e, per ora, dal silenzio di Obama.
Le lacrime di circostanza sui bambini fin qui polverizzati, su quelli che moriranno e sulle decine di migliaia che resteranno traumatizzati per sempre, mentre da anni vivono senza cibo, acqua e medicinali, servono a lubrificare agli occhi delle nostre distratte opinioni pubbliche, celando un fatto elementare: che in queste guerre indiscriminate la vita di un civile «terrorista» vale un centesimo o un duecentesimo di quella di un israeliano o di un americano (così è andata in Iraq e va in Afghanistan).Al di là di considerazioni fin troppo ovvie sulla differenza antropologica che ciò comporta (esistono oggi due tipi di umanità, una a pieno titolo, la nostra, e una microscopica o nulla, la loro), vale la pena domandarsi quale sia la logica politica che ne discende. La risposta, purtroppo, non sembra difficile: il massacro dei palestinesi come fine e non come mero mezzo militare.
La leadership dell’autorità palestinese, corrotta quanto si vuole, è stata ridicolizzata a vantaggio di Hamas non solo dal suo opportunismo e dagli errori , ma dalla volontà occidentale e israeliana di non permettere la nascita di un autentico stato palestinese. Gli insediamenti dei coloni hanno fatto il resto. Con la conseguenza che Hamas è stata visto dai palestinesi come un gruppo che almeno, perso per perso, assicurava un minimo di dignità e di resistenza. Esattamente come Hezbollah in Libano.Il fondamentalismo religioso è un risultato di questo processo, non la sua causa principale. È l’isolamento assoluto e la consapevolezza di non essere nulla al mondo, nuda carne in balia di variabili come l’attuale vuoto di potere in Usa, l’inconsistenza europea o la politica interna israeliana, che spiegano a sufficienza l’evoluzione islamista ormai dilagante in Medio Oriente.E non solo là.
Dov’è la sorpresa dei migranti che chiudono in preghiera le manifestazioni di protesta, in Europa e in Italia, contro l’attacco a Gaza? La religione, soprattutto agli occhi dei giovani, appare come l’ultima risorsa di una resistenza a cui qualsiasi motivazione politico-ideologica tradizionale è venuta a mancare. Resistenza contro Israele, certo, ma anche contro le élites autoritarie e opportuniste dei paesi arabi, l’indifferenza europea e l’ottusità muscolare del governo americano. E così la simpatia per il radicalismo islamico tra i palestinesi (che non hanno nulla da perdere), o da noi, dove i diseredati si identificano facilmente con loro, non può che aumentare. È probabile che da qualche parte, nelle montagne tra Afghanistan e Pakistan, qualcuno si stia fregando le mani.C’è nella questione palestinese un problema di giustizia così abissale che oggi è difficile persino definirlo con le parole esatte. Non altrimenti si spiegherebbe l’emozione che circonda la prossima proiezione del film «Valzer con Bashir», che rievoca una strage di palestinesi avvenuta ventisei anni fa, Sabra e Chatila.
Alessandro Dal Lago, tratto da Il Manifesto del 6 gennaio 2009