Il caso della rimozione della scomunica comminata ai quattro vescovi ordinati illecitamente da mons. M. Lefebvre il 30 giugno 1988 da parte di Benedetto XVI ha suscitato molto clamore sulla stampa italiana ed internazionale. Oggetto dello scandalo è stata soprattutto la presenza tra i “perdonati” da Ratzinger di mons. Richard Williamson, noto vescovo antisemita e negazionista, che ha approfittato del momento di popolarità concessogli del pontefice per rimarcare pubblicamente le sue posizioni in materia di Olocausto e di “questione ebraica”. Personalmente ritengo che la sovrapposizione del “caso Williamson” con l’atto di rimozione della scomunica abbia in realtà deviato l’attenzione dei media dalle implicazioni più importanti e più gravi della scelta di Benedetto XVI, implicazioni che sono tutte interne ad un discorso strettamente ecclesiale – poco noto all’opinione pubblica “laica” – sulla questione del Concilio Vaticano II (1962-1965) e della sua lunga e contrastata ricezione.
Il Vaticano II rappresentatò una svolta epocale nella storia della Chiesa. Infatti, sulla spinta del pontificato di Giovanni XXIII, i padri conciliari – tra i qual erano presenti alcune delle figure più importanti del cattolicesimo progressista di quegli anni come Giuseppe Lercaro, arcivescovo di Bologna, Giuseppe Dossetti, il suo più stretto collaboratore, i teologi Hans Kung e Yves Congar – avevano cercato di aprire la dottrina e la prassi della Chiesa alle istanze culturali del mondo moderno, al dialogo tra le religioni, alla voce dei poveri, provando così a mettere definitivamente in soffitta il modello ierocratico di Pio XII. Queste decisioni suscitarono negli anni successivi alla fine del Concilio forti malumori nell’episcopato italiano il quale, in particolare, non vedeva di buon occhio la decisione conciliare di aprire il governo della Chiesa ai laici e, soprattutto, la scelta di abbandonare l’impegno diretto nella gestione della politica italiana. Allo stesso tempo non mancarono coloro, soprattutto tra i laici, che videro invece nel Vaticano II “l’inizio di un inizio” ossia l’avvento di una stagione di trasformazione della Chiesa verso un modello di comunità povera e schierata dalla parte degli oppressi e delle loro lotte: erano questi gli esponenti di quello che sarà chiamato il “dissenso cattolico”. Alla luce di questo diffuso malessere e di tali polarizzazioni l’obiettivo di Paolo VI, il pontefice che si trovò a gestire la fase postconciliare, fu quello di “normalizzare” la ricezione del Concilio operando nell’attuazione delle riforme da esso scaturite ma ridimensionandone allo stesso tempo la carica di rinnovamento dottrinale.
In questo contesto nel 1970 scoppiò il caso dei lefevbriani, ossia dei seguaci di mons. Marcel Lefebvre e della sua “Fraternità sacerdotale San Pio X”. Fin dalla conclusione del Vaticano II i lefebvriani avevano drasticamente contrastato l’applicazione delle innovazioni dottrinali, liturgiche, e culturali partorite dall’assise conciliare, tanto da arrivare ad uno scontro diretto con il magistero che si sarebbe concluso – dopo alterne vicende e costanti tenativi di mediazione, condotti dal allora Prefetto per la Congregazione per la dottrina della fede, Joseph Ratzinger – solo nel 1988 con la decisione di Giovanni Paolo II di scomunicare Lefebvre, il quale aveva sostanzialmente rotto ogni margine di dialogo decidendo scismaticamente di ordinare quattro vescovi. La gestione “morbida” del caso Lefebvre da parte delle autorità vaticane apparve a molti decisamente sproporzionata, soprattutto rispetto alla durezza con la quale da parte pontificia erano state affrontate alcuni casi di “contestazione da sinistra”, come nel caso dei teologi della liberazione condannati a più riprese dalle autorità competenti alla tutela della dottrina della fede, ma, in realtà, la tenacia con cui Wojtyla cercò, anche dopo la scomunica, di mantenere aperto il dialogo con i lefebvriani non avrebbe dovuto stupire gli osservatori più attenti.
Infatti, già negli anni precedenti alla conclusione del “caso Lefebvre”, Giovanni Paolo II aveva impresso una svolta sostanziale alla questione della ricezione del Concilio cercando di ridimensionare la portata storica dell’evento conciliare mentre, contemporaneamente, ribadiva la fedeltà formale della Chiesa alle sue decisioni. A questo proposito, alcuni importanti studiosi della storia della Chiesa hanno parlato di una vera e propria “svolta involutiva” nella gestione della Chiesa postconcilare da parte di Giovanni Paolo II che si sarebbe concretizzata nella sospensione dei principali processi di riforma scaturiti dalla stagione giovannea (la partecipazione dei laici alla gestione delle diocesi; l’apertura della Chiesa alle confessioni non cattoliche, alle religioni non cristiane, e al mondo dell’ateismo; la presa di distanza della Santa Sede dalle vicende politiche italiane) e nella riproposizione di antiche prassi preconciliari di stampo ierocratico e centralista.
A questo punto le ragioni profonde della scelta di Benedetto XVI di ritirare la scomunica dei vescovi lefebrviani appariranno più chiare. Si è trattato, infatti, di una scelta in linea con la precedente gestione (“morbida”) del caso e, soprattutto, in sintonia con una visione della Chiesa di tipo preconciliare (centralista) e anticonciliare in cui anche posizioni di stampo antisemita, intransigente e antimoderno come quelle sostenute – da sempre, e da tutti i lefebvriani, non solamente da Williamson – possono essere considerate legittime. Anche la scelta del giorno in cui rendere pubblica tale decisione, il 21 gennaio, quattro giorni prima del cinquantesimo anniversario della convocazione del Vaticano II da parte di Giovanni XIII, è apparsa estremamente simbolica e significativa in un mondo, quello ecclesiastico, in cui le ricorrenze mantengono ancora un valore non esclusivamente rituale. Con questo gesto, infatti, solo apparentemente di apertura, Benedetto XVI ha inteso lanciare al mondo cattolico un messaggio molto chiaro: il Concilio Vaticano II e i suoi insegnamenti non sono più legge nella Chiesa, bentornata intransigenza, bentornati lefebvriani.
Per l’associazione Aut-Aut: Alessandro Santagata, dottorando in storia