Una premessa: queste note sono scritte da lontano, molto lontano; il che, secondo molti, fa di me un osservatore e un commentatore inattendibile. Ecco una buona ragione per smettere subito di leggere. Una buona ragione per continuare, invece, è che conosco il territorio di cui si parla e la gente che lo abita. In più, sebbene non sia un urbanista né un architetto, né un ingegnere, mi occupo di storia dell’ambiente e delle città. Spero sia abbastanza da meritare una rapida lettura.
Un po’ di storia…
Le colline che si sciolgono, non sono una novità. Non solo in Sicilia, non solo nei nostri anni di urbanizzazione massiccia. Già nell’Ottocento non si contavano le frane, le alluvioni, le valanghe di fango sui villaggi con tanto di morti annesse. E’ un problema di “assetto idrogeologico”. Che vuol dire? In parole povere, vuol dire che l’acqua che scende dal cielo non è trattenuta da vegetazione e annesse radici, trasformandosi in fiumi di fango che dalle montagne scendono sui paesi costruiti a valle. Quando una simile percezione del problema si è diffusa, sono stati progettati degli interventi. Logico, direte voi. In effetti, così sembra.
Alcuni interventi furono realizzati già a inizio secolo: grandi progetti di “bonifica” (prima, molto prima di Mussolini) che puntavano a trasformare il territorio. Primo, piantare alberi che trattengano il terreno. Secondo, costruire dighe e canalizzazioni. Terzo, usare l’acqua raccolta per irrigare o produrre energia elettrica. Il lago del Pollino, ad esempio, nasce così.
Grandi progetti, in parte realizzati, in parte no. Ma dimostrano che già un secolo fa si conosceva pienamente il problema e che già un secolo fa si avevano le competenze tecniche e culturali per risolverlo, o almeno mitigarlo.
In mezzo sono successe tante cose: guerre, dittature, altre guerre. Tanti soldi al Sud, all’inizio anche per continuare quest’opera, poi solo per alimentare clientele e costruire impianti petrolchimici. Oggi ci sono sempre meno alberi, sempre meno coltivazioni sulle pendici dei monti, e sempre più case al posto di coltivazioni e alberi. D’estate arrivano gli incendi, che bruciano quel poco che resta della vegetazione collinare e montuosa. In autunno arriva la pioggia che, come nelle ultime migliaia di anni, trasforma i magri rigagnoli che solcano le montagne in torrenti impetuosi.
Questa è una storia del Sud. La cornice di tante storie singolari. Ognuna delle quali con le sue ragioni da spiegare, i suoi percorsi, i suoi tempi spezzati. A Sarno nel 1998 c’erano tante, troppe case. E queste case avevano sostituito gli alberi e i campi. E quando la pioggia è arrivata, le colline si sono sciolte e si sono portate via tante persone. La stessa cosa era successa ad Agrigento nel lontano 1966. Ogni storia è una storia a sé. Ma tutte sembrano assomigliarsi.
Giampilieri, Scaletta e le altre.
Eppure, ai morti e ai vivi bisogna dare il rispetto che meritano. La storia di Giampilieri ha in comune con quella di Sarno solo la pioggia. E il fango. A Giampilieri non ci sono case abusive. Ci sono case, e c’è una montagna che non ha alberi né coltivazioni, né terrazzamenti. E che al primo temporale d’autunno, si è sciolta. Lo sapevano tutti che sarebbe accaduto: era già successo due anni fa, il 25 ottobre 2007. Si era formato un comitato per proteggere il villaggio, erano stati stanziati, pare, anche dei soldi. Finiti altrove. Non c’erano case abusive. C’erano il vecchio paese, la vecchia montagna, la vecchia pioggia.
La cosa nuova, l’incuria e il disinteresse per lo stato del territorio da parte delle amministrazioni di ogni livello, l’aggressione sempre più pericolosa degli incendi, la terra che non tiene più. Oggi ci sono una comunità stravolta, un paese sventrato, famiglie distrutte e una trentina di morti. Persone precipitate, nello spazio di un temporale, nell’assurda condizione di sfollati: senza casa e senza beni, in balia della “macchina dei soccorsi”. Che, come tutte le macchine, a volte non funziona, e spesso, anche quando funziona, non tiene in gran conto le persone in carne, ossa e sentimenti.
Neppure a Scaletta c’erano case abusive. Tutto regolare, a detta del sindaco. Solo un palazzo che ha surfato sull’onda del fango, fino a schiantarsi sul primo edificio che ha trovato sulla sua strada. Ma è facile credere alle parole del sindaco. I piani regolatori sono un elastico, facile da tirare nella direzione dell’appaltatore di turno che vuole edificare il suo lotto di terreno. Comprato a costo uno e rivenduto sotto forma di trivani familiari a prezzo cento. E chi se ne frega della natura del suolo, della vicinanza al letto del torrente, magari anche delle norme di costruzione. Poi arriva la pioggia, come sempre. E il rigagnolo diventa torrente, che trascina terra, macchine e pure il palazzo.
In un vecchio film degli anni ottanta un edificio si trasformava in vascello pirata, cominciando a navigare tra i grattacieli di una metropoli. Non ricordo come terminasse quella storia. Questa qui è finita con morti e feriti.
Letojanni è un altro dei mille paesi e cittadine che, quasi senza soluzione di continuità, occupano le coste della provincia di Messina. Ancora più a sud, non lontano dal paradiso turistico di Taormina e Giardini Naxos. Tra il 23 e il 24 settembre 2009, non molto tempo prima del disastro di ottobre, si è ricoperta di fango. Macchine quasi sommerse, strade bloccate, case allagate. Nessun morto, per fortuna. Ma la dinamica è la stessa. Piove, e le colline si sciolgono.
L’urbanizzazione mostra tutta la sua precarietà, di fronte a un territorio di cui non ci si è mai curati davvero, come se fosse altro, un accessorio, un margine irrilevante, un fantasma. E invece, basta un po’ di pioggia e quel territorio dimenticato o relegato ai margini scende sulle città come valanga. Arriva in centro, spazza le strade e invade le case. Senza preoccuparsi troppo di chi o cosa trascina con sé.
Ma non è solo questione di fango. Alle volte basta l’acqua. Messina è una città stretta tra il mare e le montagne, i Nebrodi. Una lunga striscia urbanizzata che è solcata, dall’alto verso il basso, da torrenti, coperti da almeno un secolo e trasformati in strade.
Come il torrente Annunziata, che scorre, come tutti gli altri, nel cuore della città, sotto il viale che porta il suo nome. Il torrente è coperto dall’asfalto, stretto da costruzioni che si arrampicano sempre di più sulle colline. Nessun problema. L’ampiezza della canalizzazione sotterranea è ben al di sopra della portata media d’acqua. E nessuno pensa al torrente quando si costruiscono le case sulle pendici, se ne occupa o costringe il corso, si modifica il suo scorrimento per far spazio a nuove lottizzazioni; blocchi di cemento dai nomi edenici naturalmente previsti dal piano regolatore.
Poi un bel giorno, piove più del solito, e il torrente riprende lo spazio che non aveva più. Questo è successo il 28 settembre 1998, dopo due giorni di pioggia. Quattro morti.
Ogni storia è singolare, obbedisce a ragioni proprie e ha i propri protagonisti. Ma tutte si assomigliano. O meglio, se considerate insieme, dipingono un unico quadro. Un quadro in cui le responsabilità, le ragioni e gli effetti si identificano su un’altra scala.
Innanzitutto, un quadro comune a tutta la provincia; in cui elementi ricorrenti, come i temporali autunnali, si combinano con un dissesto strutturale del territorio e con singolari combinazioni di cause: la mancanza o la distruzione di coltivazioni e alberi; l’urbanizzazione indiscriminata (il più delle volte non abusiva, almeno tecnicamente); la mancata considerazione delle peculiarità del regime idrologico siciliano Il tutto, naturalmente, nell’assenza d’interventi da parte delle istituzioni, dall’Annunziata a Giampilieri, da Letojanni a Scaletta. Un quadro che ha radici secolari e accomuna tutto il sud. Un quadro che chiama in causa i responsabili di ieri, di oggi e di domani.
Un disastro di serie B?
I messinesi si lamentano del trattamento riservatogli. Nessun lutto nazionale, se non a grande richiesta e dopo più di una settimana. Nessun minuto di silenzio negli stadi la domenica, nessuna maratona TV, nessuna raccolta fondi. Una rapida visita di Berlusconi, inevitabile. Poi basta. Certo, niente a che vedere con la mobilitazione nazionale seguita al terremoto in Abruzzo. La spiegazione più comune dei diretti interessati è: siamo i rinnegati, i figli di un dio minore; per questo nessuno ci considera e i nostri morti non sono giudicati degni di attenzione.
Questo è un disastro di serie B, perché siamo meridionali e perché non ci sono stati abbastanza morti. Siamo davvero sicuri che si possa leggere la situazione in questi termini?
Le ragioni mi sembrano ben altre. A differenza dell’Abruzzo, questo disastro è difficilmente vendibile come “naturale”. In Abruzzo si poteva coprire lo sbriciolarsi di case teoricamente “a norma” con la retorica della “Natura matrigna”. Il terremoto si presta perfettamente a funzionare da catalizzatore delle responsabilità: l’evento imprevedibile e inevitabile, fuori dalla portata degli uomini. Berlusconi, novello re taumaturgo, poteva così presentarsi come protettore delle incolpevoli vittime della natura, libero dall’ombra di qualsiasi responsabilità che ne intaccasse il carisma. Simbolo vivente del ruolo protettivo delle istituzioni pubbliche contro le imprevedibili forze ctonie.
In Sicilia però, per quanto Min Zo-Lin possa essersi impegnato, è difficile parlare di “natura matrigna”: un temporale stagionale, per quanto intenso e violento possa essere stato, resta pur sempre un evento tutt’altro che eccezionale. Come dispiegare le retoriche del soccorso paterno, quando al contrario si rischia di essere direttamente o indirettamente chiamati in causa? Quando le istituzioni pubbliche, invece di apparire nella veste di mano soccorritrice, sono chiaramente responsabili di quanto accaduto?
Quasi tutti l’hanno capito: il disastro di Giampilieri e Scaletta è un disastro umano, troppo umano.
Precisamente a questo punto s’inseriscono due retoriche opposte e speculari che circolano con insistenza. Da una parte, il vittimismo meridionalista sparso a piene mani dai Nania (deputato messinese PdL), dai Buzzanca (sindaco PdL), dai Ricevuto (presidente della provincia PdL) con l’appoggio dei mezzi d’informazione locali. Siamo vittime del disinteresse, non vogliono piangere i nostri morti, siamo cittadini di serie B.
Questa retorica è facile quanto pericolosa. È un mantra efficacissimo nel bloccare qualsiasi riflessione e non a caso è ripetuto da media e politici locali: concentrare l’attenzione e il dibattito sul minuto di silenzio o sul lutto nazionale, aiuta a spostare l’attenzione dai responsabili. Responsabili che si trovano anche al centro del sistema politico, economico e mediatico locale.
Dall’altro lato, si dispiega la retorica dell’abusivismo. I protagonisti sono i giornali nazionali, e le forze della destra populista settentrionale, Lega Nord in testa: la colpa è degli abusivi, che hanno costruito le case dove non si può. Al massimo delle amministrazioni locali che l’hanno permesso.
Strategia efficace per trasformare il disastro nella “punzione” se non “giusta” almeno “meritata” dei meridionali storicamente illegali e “illegalisti”. Quando invece è un disastro che investe le competenze non sviluppate, i finanziamenti pubblici sempre andati in altre direzioni, la volontà politica delle maggioranze di ogni colore che non c’è stata, almeno quanto l’incuria e la criminale complicità delle classi dirigenti locali. Quando invece è l’epifania della responsabilità storica dello Stato italiano e della sua classe dirigente.
Per decenni, per intere ere politiche.
Sono retoriche efficaci, perché si appoggiano su dati di realtà – la scarsa attenzione al disastro da una parte e l’abusivismo dall’altra – per costruire narrazioni semplificatrici che fanno leva su passioni e convinzioni diffuse. Ma sono entrambe retoriche pericolose, perché spostano l’attenzione dal cuore del problema, dalla drammatica evidenza del disastro di Messina: il tessuto materiale dell’Italia che cade a pezzi. Quello che è accaduto a Giampilieri, a Scaletta e alle altre cittadine della provincia di Messina, è l’evidenza di un disastro più grande, di cui anche il terremoto in Abruzzo è stato il segno. Un disastro politico, culturale, economico. Troppo pericoloso parlarne. Da questo punto di vista, le due retoriche si rivelano perfettamente complementari. Efficaci nel depistare l’attenzione da un evento, o meglio da una catena di eventi, che rappresentano un preciso atto d’accusa e che chiamano a gran voce un cambiamento radicale.
L’urgenza del cambiamento
Bisogna stare ben attenti. Parlare di disastro “naturale” è impossibile e fuorviante, certo. Ciò non vuol dire negare la centralità della questione ambientale. Al contrario, vuol dire restituirle il posto e il peso che le spetta, lontano da rappresentazioni metafisiche o essenzialiste della “natura” che sono all’origine di tanti problemi e fraintendimenti. Vuol dire mettere in prospettiva le responsabilità e, forse, intravedere possibili vie d’uscita.
Chiariamo la questione: non c’è nessuna entità “Natura” che si ribella; né tanto meno è un problema di mitici equilibri primigenii distrutti dalla “perversa civiltà moderna”.
Argomenti del genere hanno un che di ridicolo, tanto più in una terra come la Sicilia (come l’Italia), in cui gli uomini si sono installati da più di 10.000 anni. Tra la nostra presenza attiva e le dinamiche autonome dell’ambiente esiste da sempre una relazione strutturale in perenne mutamento, un’implicazione reciproca. Il problema, forse, è l’aver perso di vista tale implicazione. Il “regime di conoscenza” nel quale le nostre azioni sono pensate e interpretate, infatti, vede la “natura” precisamente come un’esternalità separata o una materia inerte da modificare senza conseguenze.
Al meglio, nel caso dell’ambientalismo classico del secolo scorso, un’essenza preziosa da coltivare in apposite riserve.
Ciò che Messina mostra con la drammatica evidenza dei suoi morti, è l’obsolescenza e la pericolosità di tale forma mentis. Una forma mentis che ha prodotto e giustificato le profonde trasformazioni ambientali degli ultimi cinquant’anni. È il tempo di accorgersi che la materia non è affatto inerte e che l’esternalità non è affatto esterna, sebbene obbedisca a logiche proprie. E diventa valanga di fango che distrugge le cose e uccide le persone. O terremoto che sbriciola i palazzi di cartone dell’Impregilo.
La “natura” non esiste: esiste una relazione costante, costantemente aperta, di cui ogni azione deve tenere conto. Siamo esseri situati in una materia viva.
Le comunità di mezza Italia vivono sotto una minaccia continua. E mortale. La Protezione Civile ha stimato a rischio tutta la provincia di Messina. E la situazione non è molto diversa altrove. Conosciamo i responsabili e conosciamo il loro modo di pensare.
Oggi abbiamo la possibilità di cambiare rotta. All’inizio del secolo scorso, per fronteggiare problemi simili, furono progettati grandi programmi d’investimento pluridecennali, mirati alla trasformazione “integrale” dei regimi idrogeologici e alla valorizzazione energetica ed economica di tale trasformazione. Possiamo pensare ancora di affidarci a soluzioni stataliste come all’inizio del secolo scorso? Personalmente credo di no. In ogni caso l’urgenza del cambiamento è tale da rendere pericoloso aspettare. Anche aspettare il cambiamento dall’alto d’istituzioni illuminate.
Io credo che ci sia bisogno, invece, e a partire da oggi, di una riappropriazione prima di tutto culturale dei nostri territori. Non nel nome del “sangue” e delle “radici”, parole pericolose e cariche di passioni tristi. Piuttosto, nel nome dell’avvenire: re-imparare a conoscerli, a pensarli come elemento di un’implicazione reciproca in cui siamo immersi, volenti o nolenti.
Decostruire un regime di conoscenza sempre più mortale, che è servito e serve da scudo a politiche mortali e a economie del saccheggio. E costruirne uno nuovo; che renda possibile un rapporto meno distruttivo (reciprocamente meno distruttivo) tra uomini e ambiente. A partire dal basso, da chi abita e trasforma i territori, da chi paga il prezzo del radicamento terribilmente materiale di ogni azione umana. Gli abitanti di Giampilieri ormai lo sanno bene. Il futuro e la sicurezza sono tra le mani, la terra e l’acqua. Le loro, le nostre.
Oggi il sapere è al centro della battaglia politica. Quale sapere dell’ambiente è in gioco? Di quale sapere ha bisogno la nostra pratica? È questa la sfida cui ci chiama il disastro di Messina. Perché non si ripeta. Perché vogliamo giustizia. Perché non c’è più nulla da difendere, ma tutto da trasformare.
Giacomo Parrinello per Aut-Aut