In vista dell’assemblea nazionale di domani a Roma, presso la Sapienza, indetta dai "Laboratori Precari – Roma" e dal "Coordinamento nazionale precari dell’università – FLC CGIL", vi alleghiamo il contributo alla discussione inviatoci da Federico Oliveri, responsabile università e ricerca del PRC di Pisa.
Università pubblica, democratica e di massa: ultima chiamata
Oggi pomeriggio [domani, 20 novembre] alla Sapienza di Roma si svolgerà l’Assemblea nazionale dei ricercatori-docenti precari delle università italiane. All’ordine del giorno dell’Assemblea ci sarà la discussione del nuovo disegno di legge del governo su governance, diritto allo studio e reclutamento, ma anche l’elaborazione di un contro-disegno di legge e di una piattaforma di rivendicazioni in materia di diritti dei lavoratori dell’università, e la definizione di un calendario di mobilitazioni locali e nazionali, tra cui lo sciopero generale del settore della conoscenza annunciato dalla Flc-Cgil per l’11 dicembre.
Il nuovo disegno di legge viene propagandato dal ministro Gelmini come la “rivoluzione del merito e dell’efficienza” contro l’università dei baroni o, con tragica menzogna, come la misura idonea a garantire il ricambio generazionale. Il suo impianto verticistico piace ai Rettori, che infatti lo sostengono non troppo velatamente, salvo chiedere la revoca dei tagli ai finanziamenti imposti lo scorso anno da Tremonti che, se mantenuti, porteranno i conti di quasi tutti gli atenei fuori controllo già nel prossimo anno. La retorica manageriale e meritocratica, ossia classista, del disegno di legge suscita entusiasmo tra vecchi e nuovi affossatori dell’università repubblicana, che tanto spazio trovano sulle colonne del Sole 24 Ore, di Libero e purtroppo anche del Corriere della Sera. La proposta Gelmini sembra non dispiacere neanche al responsabile nazionale università del PD, Luciano Modica, specie nella parte relativa alla governance e ai concorsi, tanto che l’ex rettore di Pisa non dispera di potere “trovare in Parlamento un’intelligente mediazione” con la maggioranza. Auguri.
Se queste sono le intenzioni del principale partito di “opposizione”, ci aspettano mesi molto difficili e movimentati. All’interno delle università solo i precari, gli studenti e una piccola parte del corpo docente sembrano essere consapevoli che il combinato disposto dei tagli, del blocco dei concorsi e delle assunzioni, del congelamento dei fondi per la ricerca e di questa ennesima riforma a costo zero significano una cosa sola: la fine dell’università, non per come l’abbiamo conosciuta, ma per come abbiamo cercato per tanti anni di farla diventare. Un’università di massa e di qualità, democratica ed egualitaria, rispettosa del lavoro di tutti, formatrice di cittadini liberi, fonte di progresso civile e sociale.
Qualsiasi mobilitazione deve oggi ripartire dal nodo delle risorse e della loro gestione, e dalla difesa di alcuni diritti fondamentali che il disegno di legge mette in discussione, in primis il diritto a un lavoro adeguatamente remunerato e tutelato, e il diritto allo studio. L’Italia è il paese in Europa che investe meno in università, dove i professori devono seguire il maggior numero di studenti e dove il sostegno a chi proviene da famiglie a basso reddito è sistematicamente inferiore alle necessità. Il nostro paese investe ogni anno nell’università lo 0,90% del PIL. La media dell’Unione Europea è di 1,18%. Solo la Grecia investe meno di noi, ma ci sta superando. Il nostro paese spende per ogni studente universitario 7.127 euro l’anno. La media dell’Unione è di 7.898 euro. Il numero di studenti per docente in Italia è di 21,6, contro una media europea di 15,9. Ogni anno migliaia di studenti, pur avendo i requisiti per ricevere borse di studio, ne sono esclusi, senza contare chi resta fuori a causa del tetto troppo basso fissato al reddito familiare.
Le risorse per rilanciare università e ricerca ci sono, e ce ne sarebbero state ancora di più se il governo non avesse deciso il taglio dell’ICI per i più ricchi, o il salvataggio pubblico dell’Alitalia, e se non preparasse un nuovo taglio alle tasse per le imprese. Si tratta infatti di volontà politica: più che il semplice “fare cassa” sull’università, il disegno del governo è quello di bloccare la cultura, la formazione e la mobilità sociale nel nostro paese, all’interno di un modello di sviluppo fondato sui bassi salari e sulla precarietà del lavoro, nonché sul consumo scellerato del territorio e sulla privatizzazione dei beni comuni.
Attenzione però. Qualora si riuscisse a strappare un piano pluriennale di rifinanziamento delle università, dovremo essere in grado di operare secondo priorità precise e di riformare in senso democratico gli organi di governo delle università. Se l’autonomia è fallita, è perché non è stata accompagnata da partecipazione e trasparenza sulle scelte che venivano compiute. Se il lavoro precario ha prosperato e la qualità della didattica si è, in parallelo, deteriorata è perché le gerarchie accademiche hanno preferito nutrire false speranze nei giovani ricercatori e negli studenti, piuttosto che redistribuire le risorse e rinunciare alle loro micro-rendite di posizione.
Se non avremo il coraggio di fare del Senato accademico un corpo veramente rappresentativo di tutte le componenti dell’università, di superare le fasce docenti in direzione di un unica fascia contrattualizzata, di fissare tetti alle progressioni automatiche di stipendio, di chiedere il pensionamento di tutti coloro che hanno maturato 40 anni di contributi, di sostituire tutte le forme di contratto parasubordinato nella didattica e nella ricerca con un’unica forma contrattuale della durata massima di tre anni, di introdurre criteri e meccanismi autentici di valutazione del lavoro dei docenti e dei ricercatori, di istituire una lista nazionale a scorrimento su punteggio numerico degli idonei alla docenza, avremo perduto l’ultima occasione di salvare l’università e il paese da un declino irreversibile.
Su questi nodi programmatici l’Assemblea di Roma sarà chiamata a dire parole chiare e forti e a lanciare una mobilitazione nazionale. Sperare di essere gli ultimi fortunati ad entrare di ruolo o avanzare di carriera prima del diluvio è da miopi, o peggio. Ma anche solo resistere, oggi, non basta più: dobbiamo anche saper contrattaccare sul piano delle idee e delle politiche di alternativa.
Federico Oliveri
Responsabile provinciale università
Rifondazione Comunista Pisa