Caso Pinar: Riportiamo un interessante articolo di Fulvio Vassallo Paleologo, Università di Palermo,pubblicato su Meltingpot.org, in cui mette in risalto aspetti relativi agli obblighi di protezione degli stati.
1. Si è risolta dopo un lungo conflitto di competenze tra Italia e Malta la vicenda del mercantile Pinar che nella giornata di giovedì 16 aprile, nelle acque del Canale di Sicilia, ha tratto in salvo 154 migranti in procinto di annegare, recuperando anche il corpo di un cadavere, una giovane donna in stato di gravidanza, che è poi rimasta quattro giorni dentro un sacco di plastica, all’interno di una delle scialuppe di salvataggio della nave bloccata dalle autorità italiane nella zona contigua alle ac
que territoriali.
2. Al di là delle condizioni sanitarie nelle quali, a bordo della PINAR, sono stati costretti i migranti che quando erano stati soccorsi erano già stati in mare cinque giorni, si può essere certi che si continuerà a discutere a lungo su questo caso e sullo stato competente ad accogliere i naufraghi . Anche se alla fine i migranti sono stati trasbordati su mezzi della marina italiana e la PINAR ha potuto proseguire il suo viaggio verso la Tunisia. L’Italia e Malta si rimpalleranno ancora a lungo la responsabilità degli interventi, perché le autorità maltesi non hanno apposto la firma agli ultimi protocolli internazionali, stipulati nel 2006, sulle zone di salvataggio (zone SAR), sottoscritti invece dall’Italia. Trattandosi di materia di diritto internazionale, non si comprende peraltro quale ruolo possa giocare l’Unione Europea, invocata dai ministri interessati. L’Unione Europea non sembra d’accordo neppure sul finanziamento delle missioni FRONTEX o sulla revisione del Regolamento Dublino II, in base al quale si determina lo stato competente ad esaminare le domande di asilo, e non è riuscita neppure ad imporre ai diversi paesi un regime uniforme in materia di asilo e di protezione internazionale.
3. Appare intanto evidente che Malta ha preteso la massima estensione della zona SAR, e della “quasi” corrispondente “zona di esclusivo interesse economico” (ZEE), ma non ha i mezzi aeronavali, la capacità ricettiva, né la volontà politica di accogliere nel suo territorio tutte le persone che vengono salvate nella zona di soccorso che sarebbe di sua competenza. Sono anni, peraltro, che le autorità di Malta, sede delle missioni periodiche di Frontex, chiedono aiuto all’Europa senza ricevere aiuti sostanziali.
4. Malgrado i ricorrenti annunci sulle sei “mitiche”motovedette che l’Italia cederà alla Libia, che dovrebbero entrare in azione il 15 maggio prossimo, e malgrado le operazioni di pattugliamento congiunto dell’Agenzia europea per il contrasto dell’immigrazione clandestina, FRONTEX, si stanno intensificando le partenze dei migranti dalla Libia e dalla Tunisia, come si sta già verificando in questo scorcio di primavera. E la situazione di quanti verranno soccorsi in acque internazionali risulterà ancora più complicata che in passato, dopo la stipula di un accordo tra Malta e la Libia sulle rispettive zone SAR di salvataggio e soccorso. Sono note a tutte le modalità di intervento dei libici e dei tunisini nelle azioni di salvataggio, come è confermato dalle centinaia di vittime che si devono contare dall’inizio dell’anno per naufragi che si sono verificati poco distante dalle coste di quei paesi.
5. Ancora più preoccupante è l’effetto “annuncio” che sortirà in futuro il rimpallo di responsabilità tra Italia e Malta sulle competenze per le azioni di salvataggio. Effetto annuncio che deriva anche da alcuni processi in corso per agevolazione dell’immigrazione clandestina. La contesa diplomatica sulla nave Pinar proseguirà proprio negli stessi giorni in cui il Tribunale di Agrigento sta concludendo i processi ai responsabili della nave tedesca Cap Anamur ed ai pescatori tunisini che negli anni scorsi sono stati arrestati dopo avere compiuto azioni di salvataggio in acque internazionali. In futuro potrebbero essere sempre meno i comandanti delle navi commerciali che segnaleranno la presenza di migranti in difficoltà, prestandosi ad azioni di salvataggio. Sono già numerose le testimonianze di quanti, dopo lo sbarco in Sicilia, raccontano di imbarcazioni commerciali che non si sono fermate per prestare soccorso. Per ridare fiducia ai comandanti delle imbarcazioni che effettuano interventi di salvataggio della vita umana a mare occorre abolire le sanzioni penali che ancora in questi giorni lo stato italiano cerca di infliggere a quanti hanno risposto alle richieste di aiuto di chi era in procinto di affondare.
6. Dopo la conclusione della vicenda della nave PINAR, converrà chiarire meglio gli obblighi di soccorso e protezione internazionale che incombono, quale che sia la portata delle convenzioni SAR, tanto su Malta che sull’Italia, paesi che appartengono entrambi all’Unione Europea ed al Consiglio d’Europa e sono dunque soggetti alla giurisdizione della Corte di Giustizia di Lussemburgo e della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. La decisione del governo italiano, di smantellare dal gennaio del 2009 il sistema di accoglienza già collaudato con successo lo scorso anno nell’isola di Lampedusa, e la decisione di istituire nell’isola un centro di identificazione ed espulsione, oltre al possibile aumento dei controlli da parte delle autorità libiche, produrrà uno spostamento delle rotte ad oriente, esattamente nella direzione di Malta e poi della Sicilia sud-orientale, e dunque i conflitti diplomatici tra l’Italia e questo paese, come quello che ha riguardato la nave PINAR potranno ripetersi. Non sembra certo in vista una revisione della Convenzione di Dublino (Regolamento Dublino II), se ne discute da anni, ma senza trovare un accordo, così come non si riesce a trovare una intesa sui criteri di distribuzione degli oneri derivanti dall’accoglienza dei richiedenti asilo nei diversi paesi europei ( burden sharing).
7. Si deve osservare a questo punto come tutti gli stati europei siano tenuti a rispettare le normative internazionali e comunitarie, anche con riferimento alle richieste di protezione internazionale, non solo nel proprio territorio, ma anche quando operano con propri agenti al di fuori dei confini territoriali, come nel caso delle zone limitrofe alle acque internazionali. Nel caso dell’Italia questo obbligo può dirsi sussistente anche al di fuori delle acque territoriali, in quella che è stata definita la “zona contigua”, prevista dagli articoli 11 e 12 commi 9 bis e seguenti del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998, così come integrato dal Decreto Interministeriale del 19 giugno 2003, che individua una “zona contigua” esterna rispetto al limite delle acque territoriali,nella quale è previsto “ il coordinamento delle attività navali connesse al contrasto dell’immigrazione clandestina. L’assenza di uno specifico regolamento di attuazione non cancella la istituzione di questa zona contigua ma la rimette alla discrezionalità delle autorità di polizia marittima. Una area nella quale dunque le autorità italiane, in particolare la Guardia di Finanza, possono esercitare un “potere di imperio” che si può tradurre nelle visite a bordo ma anche nell’intimazione di blocco e nel rifiuto all’ingresso nelle acque territoriali. Come nel caso della nave Cap Anamur nel 2004, così nella stessa “zona contigua” a 24 miglia circa dalla costa italiana, è stata bloccata nei giorni scorsi la nave PINAR e su questa sono saliti agenti della guardia costiera italiana.
8. Lo stesso Regolamento interministeriale del 19 giugno 2003 precisa all’art. 7 che “nell’assolvimento del compito assegnato l’azione di contrasto è sempre improntata alla salvaguardia della vita umana ed al rispetto della dignità della persona”. Prescrizioni che finora sono state scrupolosamente osservate dagli interventi di soccorso della nostra Marina Militare anche in acque internazionali che ricadevano nella zona SAR di Malta o della Libia. Per questa ragione il caso della nave PINAR rischia di diventare un pericoloso precedente, ma non nel senso che teme Maroni. Le dichiarazioni che il caso non costituirà un precedente sembrano dimostrare che in futuro gli interventi di salvataggio che si concluderanno con lo sbarco in un porto italiano saranno in futuro sensibilmente ridotti rispetto al passato. Se si seguiranno le stesse linee di intervento, meglio dire di blocco, inizialmente adottate dal Ministero dell’interno italiano nel caso della nave PINAR, un numero assai elevato di interventi di salvataggio potrebbe essere procrastinato, o addirittura impedito, a causa del palleggio delle responsabilità tra i diversi stati. Con quali conseguenze per la salvaguardia della vita umana in mare e per i diritti dei potenziali richiedenti asilo o di altri soggetti vulnerabili come i minori non accompagnati e le donne in gravidanza ( e spesso vittima di stupri) è purtroppo facile prevedere.
9. La Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo obbliga gli stati membri a rispettare il diritto alla vita ( art. 2), il divieto di trattamenti inumani e degradanti ( art. 3), il diritto alla libertà ed alla sicurezza (art.5), il diritto al rispetto della vita privata e familiare ( art. 8) diritti che vanno riconosciuti anche ai migranti che si trovino in zone extraterritoriali marittime soggette ai poteri delle autorità italiane, o di altri paesi che sono soggetti alla giurisdizione della CEDU. Nel caso dei minori e delle donne vittime di abusi o in stato di gravidanza il diritto internazionale prevede tutele ancora più intense.
10. Si deve notare poi come la Corte Europea dei diritti dell’uomo, organo del Consiglio d’Europa, del quale fanno parte sia l’Italia che Malta, abbia affermato in diverse occasioni che gli obblighi degli stati corrispondenti ai diritti fondamentali riconosciuti alle persone, senza alcuna eccezione in base alla loro nazionalità, vanno garantiti anche negli spazi extraterritoriali nei quali i diversi paesi intervengono con propri agenti, esercitando “poteri di imperio”, come si possono ben definire anche le acque internazionali e le “zone contigue”. Anche al di fuori dei casi di conflitto bellico, o di interventi di polizia internazionale, se intervengono organi di polizia appartenenti ad un determinato stato, questo stato non può sottrarsi alle prescrizioni della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo.
11. La Corte Europea dei diritti dell’uomo ha osservato che gli obblighi derivanti dalla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo” vanno riconosciuti anche in caso di poteri d’imperio esercitati da agenti degli Stati contraenti “all’estero”. La cittadinanza o la provenienza nazionale non possono intaccare il godimento dei diritti fondamentali della persona e gli stati devono comunque garantire anche all’estero un nucleo irriducibile di diritti umani derivanti dal diritto internazionale consuetudinario.
Si deve anche osservare che le peculiari condizioni di tempo e di luogo dell’esercizio dei poteri di imperio dello stato oltre il limite delle acque territoriali elide la nota questione dell’esaurimento delle vie di ricorso interno, prima di un ricorso alla Corte di Strasburgo, per la impossibilità della persona migrante bloccata in acque internazionali o nella zona limitrofa, di avere accesso alla giurisdizione interna, direttamente o con la nomina di un legale di fiducia. Negli interventi di blocco in acque internazionali, ma anche nella zona contigua alle acque territoriali, non è ipotizzabile neppure l’intervento di interpreti e la dovuta informazione sulla possibilità e sulle modalità della richiesta di protezione internazionale.
12. Le decisioni della CEDU nei casi Louizidou v. Turchia, del 18 dicembre 1996, e poi in altri casi più recenti, come il caso Benkovich, hanno affermato la responsabilità dello stato anche al di fuori delle proprie frontiere, quando si verifichi l’intervento di imperio di propri agenti, o delle proprie forze armate. La Corte osserva come “the (negative) obligation of not violating human rights and that (positive) of guaranteeing all necessary action aimed to give effectiveness to such a protection, requiring extensive state outlays, goes beyond the territory of the State, since it includes those areas in which the State exercises its own authority and control, through State agents or troops deployed abroad “.
13. In particolare, a partire dal caso Öcalan e dal caso Issa e altri v. Turchia, la Corte Europea ha affermato il principio della “giurisdizione personale” nel senso che una volta che un paese opera all’estero con propri agenti una misura riconducibile ad un potere di imperio che incide sulla libertà della persona non può sottrarsi alla applicazione dei principi della Convenzione. CEDU, Issa And Others v. Turkey – 31821/96 [2004] 629 (16 Novembre 2004 e CEDU , Öcalan v. Turkey – 46221/99 [2003] 125 (12 Marzo 2003).
14. Anche dopo la conclusione del caso della nave PINAR, in vista degli strascichi internazionali che certamente non mancheranno, vanno precisate altre disposizioni vincolanti per quanto concerne il diritto del mare, anche con riferimento all’asilo e alla protezione internazionale, previsti dalla Convenzione di Ginevra del 1951 e dalle normative comunitarie, da ultimo la direttiva qualifiche 83/2004/CE e la direttiva procedure 85/2005/CE adesso attuate con decreti legislativi anche in Italia. Anche dopo il caso PINAR si può ripetere quanto osservava Amnesty International nel 2004, a margine del caso Cap Anamur. “Il caso della Cap Anamur è esemplificativo dell’atteggiamento generale dell’Unione Europea e del Governo italiano sul tema dei rifugiati: il pericolo di ’creare un precedente’ vagheggiato dai ministri dell’interno nell’applicazione del diritto internazionale costituisce “un indecoroso spregio per le più elementari norme del diritto internazionale e dei diritti umani”.
15. La Convenzione di Montego Bay del 10 dicembre 1982 (UNCLOS) costituisce la fonte primaria del diritto internazionale del mare. L’art. 311 dispone, infatti, che sono salvi soltanto gli altri accordi internazionali compatibili con la Convenzione stessa. Due o più Stati – continua l’art. 311 della Convenzione sul diritto del mare – possono concludere accordi che modifichino o sospendano l’applicazione delle disposizioni della Convenzione e che si applichino unicamente alle loro reciproche relazioni, solo a condizione che questi accordi non rechino pregiudizio ad una delle disposizioni della Convenzione, la cui mancata osservanza sarebbe incompatibile con la realizzazione del suo oggetto e del suo scopo e, parimenti, a condizione che questi accordi non pregiudichino l’applicazione dei principi fondamentali della Convenzione e non pregiudichino anche il godimento dei diritti o l’adempimento degli obblighi degli altri Stati derivanti dalla Convenzione stessa. Questo principio di compatibilità non entra in discussione qualora la medesima Convenzione di Montego Bay richiami e confermi espressamente accordi internazionali in vigore o ne auspichi la stipulazione con riferimento a specifici settori. Tra le norme che non possono essere oggetto di deroga da parte degli Stati anche mediante accordi con altri Stati va richiamato anzitutto l’art. 98 dell’UNCLOS, che costituisce l’applicazione del principio fondamentale ed elementare della solidarietà. Ogni Stato – si legge nel citato art. 98 – impone che il comandante di una nave che batta la sua bandiera, nei limiti del possibile e senza che la nave, l’equipaggio ed i passeggeri corrano gravi rischi: a) presti assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare; b) vada il più presto possibile in soccorso delle persone in difficoltà se viene informato che persone in difficoltà hanno bisogno d’assistenza, nei limiti della ragionevolezza dell’intervento; c) presti soccorso, in caso di collisione, all’altra nave, al suo equipaggio ed ai passeggeri e, nella misura del possibile, indichi all’altra nave il nome ed il porto d’iscrizione e il primo porto del suo approdo. Il secondo comma prevede che gli Stati costieri creino e curino il funzionamento di un servizio permanente di ricerca e di salvataggio adeguato ed efficace per garantire la sicurezza marittima e aerea e, se del caso, collaborino a questo fine con gli Stati vicini nel quadro di accordi regionali.
16. Varie convenzioni internazionali, tutte in vigore in Italia insieme all’UNCLOS, completano il quadro del diritto internazionale del mare. In primo luogo, l’art. 10 della Convenzione del 1989 sul soccorso in mare dispone che ogni comandante è obbligato, nella misura in cui ciò non crei pericolo grave per la sua nave e le persone a bordo, a soccorrere ogni persona che sia in pericolo di scomparsa in mare. Gli Stati adotteranno tutte le misure necessarie per far osservare tale obbligo. La Convenzione Internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (Convenzione SOLAS) impone al comandante di una nave “ che si trovi nella posizione di essere in grado di prestare assistenza avendo ricevuto informazione da qualsiasi fonte circa la presenza di persone in pericolo in mare, a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza, se possibile informando gli interessati o il servizio di ricerca e soccorso del fatto che la nave sta effettuando tale operazione”.La terza Convenzione internazionale che viene in considerazione con particolare riguardo alla ricerca delle persone ed al salvataggio è la Convenzione SAR che si fonda sul principio della cooperazione internazionale. Le zone di ricerca e salvataggio sono ripartite d’intesa con gli altri Stati interessati. Tali zone non corrispondono necessariamente con le frontiere marittime esistenti né con le zone di esclusivo interesse economiche, ma ciascuno stato può ricavare vantaggi economici dalla maggiore estensione di queste aree. Esiste l’obbligo per gli stati aderenti di approntare piani operativi che prevedono le varie tipologie d’emergenza e le competenze dei centri preposti. La Convenzione SAR impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare “regardlerss of the nationality or status of such a person or the circumstances in which that person is found”, senza distinguere a seconda della nazionalità o dello stato giuridico, stabilendo altresì, oltre l’obbligo della prima assistenza anche il dovere di sbarcare i naufraghi in un “luogo sicuro”. La Convenzione SAR non parla dunque del porto più vicino ma di quello più sicuro.
17. I poteri-doveri di intervento e coordinamento da parte degli apparati di un singolo Stato nell’area di competenza non escludono, sulla base di tutte le norme sopra elencate, che unità navali di diversa bandiera possano iniziare il soccorso quando l’imminenza del pericolo per le vite umane lo richieda. Occorre però garantire che dopo l’espletamento delle operazioni di salvataggio i migranti siano ricondotti in un “porto sicuro”.
Soprattutto nei rapporti con Malta e con la Libia rimangono ancora da definire le regole d’ingaggio delle marine nel caso vengano salvati immigrati in difficoltà e questo può comportare gravi ritardi nelle operazioni di salvataggio, oltre che respingimenti collettivi verso i porti di partenza di paesi che non riconoscono (o non siano nelle condizioni di applicare effettivamente, come nel caso di Malta) la Convenzione di Ginevra o altre norme internazionali che tutelano i diritti della persona umana, con particolare riferimento ai soggetti più vulnerabili ( donne, minori, vittime di tortura).
18. In ogni caso, la doverosa cooperazione dello Stato coinvolto nell’operazione di soccorso in mare, comprende l’obbligo dello sbarco dei naufraghi in un “luogo sicuro” sulla base del giudizio del comandante dell’unità che porta a compimento l’intervento di salvataggio, prescindendo dal potere dello Stato stesso di perseguire presunti favoreggiatori (comandante ed equipaggio) o di adottare verso i clandestini (ma in tutta sicurezza) i provvedimenti di espulsione o di respingimento previsti dalla legge una volta che questi siano sbarcati a terra. Una particolare considerazione merita la problematica relativa a ciò che debba intendersi per conduzione della persona salvata in un “luogo sicuro” che non è necessariamente il porto più vicino. Con l’entrata in vigore (luglio 2006) degli emendamenti all’annesso della Convenzione SAR 1979 (luglio 2006) e della Convenzione SOLAS 1974 (e successivi protocolli) e con le linee guida – adottate dall’Organizzazione marittima internazionale( IMO) lo stesso giorno di approvazione degli emendamenti alle convenzioni e protocolli – viene fatta maggiore chiarezza sul concetto di place of safety e sul fatto che la nave soccorritrice è un luogo puramente provvisorio di salvataggio, il cui raggiungimento non coincide con il momento terminale delle operazioni di soccorso. Ma, come si è detto prima, Malta non ha ancora approvato questi ultimi protocolli.
19. Il diritto internazionale dei rifugiati stabilisce che nessuno possa essere indiscriminatamente ed indistintamente respinto alla frontiera: è un corollario del principio di non refoulement, non-respingimento, che esige che chiunque si presenti alla frontiera sia quanto meno identificato ed abbia diritto ad accedere alla procedura di asilo. Solo tramite l’identificazione di ciascun profugo/naufrago ci si può rendere conto di quali sono i Paesi verso cui tale persona non può essere in alcun modo rimpatriata o rediretta, in base all’art. 33 della Convenzione di Ginevra. Nella situazione della nave tedesca Cap Anamur nel 2004 ed adesso con la nave PINAR , il comportamento tenuto per giorni dalle autorità italiane è equivalso ad un illegittimo “respingimento collettivo” alla frontiera, in violazione della Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato.
20. Il respingimento alle frontiere marittime non può avvenire neppure tra paesi europei dovendo in questo caso ricorrere le procedure formali di riammissione. Il regolamento n 343/2003/CE del 18 febbraio 2003 (il cosiddetto Regolamento Dublino II, che fissa i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame della domanda d’asilo), può trovare applicazione solo dopo che i richiedenti asilo abbiano presentato domanda in uno Stato dell’Unione, e dunque dopo il loro ingresso nel territorio, ma non può costituire una ragione per negare l’ingresso in frontiera o ai confini delle acque territoriali.
21. Altre considerazioni vanno svolte nei casi nei quali entreranno in attività di pattugliamento congiunto i mezzi dell’agenzia europea FRONTEX ed i pattugliamenti congiunti previsti dall’accordo tra Italia e Libia siglato nell’agosto del 2008 sulla base del protocollo sottoscritto a Tripoli nel dicembre 2007. Nella Comunicazione della Commissione al Consiglio dell’Unione Europea del 30 novembre 2006, “ Rafforzare la gestione delle frontiere marittime meridionali”, si individuava “ l’esigenza di cooperare con i paesi di transito dell’Africa e del Medio Oriente per trattare la questione dei migranti illegali”, osservandosi peraltro come non fosse possibile “creare da un giorno all’altro i necessari livelli di cooperazione fattiva e politica con quei paesi, livelli che tuttavia si stanno gradualmente stabilendo in base al dialogo e alla cooperazione sui problemi della migrazione nell’ambito degli accordi di associazione euromediterranei e dei piani di azione per la politica europea di vicinato (PEV). Per quanto riguarda il controllo delle frontiere marittime, in particolare, da parte della Commissione Europea, si sottolineava la necessità che l’UE adottasse una duplice impostazione, individuando una serie di provvedimenti complementari da attuare separatamente:
– provvedimenti operativi che si possano eseguire immediatamente, intesi a combattere l’immigrazione illegale, proteggere i rifugiati e rafforzare il controllo e la sorveglianza delle frontiere marittime esterne;
– sviluppo delle relazioni già esistenti e della cooperazione pratica già stabilita con i paesi terzi, tramite il proseguimento e il rafforzamento del dialogo e della cooperazione con i paesi terzi sulle misure operative nell’ambito degli accordi di associazione euromediterranei e dei piani di azione PEV, nonché nel quadro dell’accordo di Cotonou”.
22. Si prendeva comunque atto, da parte della Commissione, come l’immigrazione irregolare via mare alle frontiere esterne marittime meridionali dell’Unione europea fosse diventata un fenomeno misto, “comprendente al tempo stesso immigranti illegali che non richiedono particolare protezione e rifugiati che necessitano di protezione internazionale” . Secondo la Commissione “la risposta dell’Unione va orientata di conseguenza. L’asilo deve costituire un elemento di rilievo di tale risposta e un’opzione efficace per le persone che necessitano di protezione internazionale.
A tale scopo, occorre assicurare che gli Stati membri applichino con coerenza ed efficienza gli obblighi di protezione, per quanto riguarda l’intercettazione e il salvataggio in mare di persone che possano necessitare di protezione internazionale e la sollecita identificazione di queste persone dopo lo sbarco, presso i luoghi di accoglienza. Va sottolineato che, da questo punto di vista, i paesi terzi hanno naturalmente gli stessi obblighi”.
23. La Comunicazione della Commissione al Consiglio lasciava tuttavia numerose questioni irrisolte, dal punto di vista operativo e dal punto di vista del rispetto del diritto internazionale del mare . Sono questioni irrisolte che si trascinano ancora oggi. Da una parte si affermava infatti che “determinare più esattamente il corretto modus operandi per intercettare le imbarcazioni che trasportano, o che si sospetta che trasportino, immigranti illegali nell’Unione europea migliorerebbe l’efficienza, decisamente necessaria, delle operazioni congiunte volte a prevenire e dirottare l’immigrazione illegale via mare, alle quali partecipano le forze di diversi Stati membri che non sempre hanno un’idea comune sul modo e sul momento in cui svolgere tali intercettazioni. Secondo la Commissione “nello svolgimento delle operazioni congiunte, la chiave del successo è costituita dal lavoro di squadra e dalle sinergie tra gli Stati membri. In tale contesto, accordi regionali potrebbero definire il diritto di sorveglianza e di intercettazione delle imbarcazioni nelle acque territoriali dei paesi di origine e di transito, agevolando l’attuazione di operazioni congiunte da parte di FRONTEX, in quanto eviterebbe la necessità di accordi ad hoc per ogni singola operazione”.
Si sottolineava tuttavia che “una questione da approfondire e chiarire è la determinazione del porto di sbarco più appropriato dopo il salvataggio in mare o l’intercettazione; strettamente legato ad essa è il problema dell’attribuzione delle responsabilità di protezione tra i vari Stati che partecipano alle operazioni di intercettazione, ricerca e salvataggio, nei confronti di coloro che richiedono protezione internazionale. Infatti la determinazione del luogo appropriato per lo sbarco implica spesso, in pratica, che lo Stato interessato sia competente per l’esame delle esigenze di protezione dei richiedenti asilo tra le persone salvate o intercettate”. Da allora ad oggi, come dimostra il caso PINAR, non sembra che in questi campo siano stati compiuti progressi sostanziali.
24. Per la Commissione meritava “ particolare attenzione la portata degli obblighi di protezione imposti a uno Stato dal rispetto del principio di non respingimento,nelle numerose e le diverse situazioni in cui le imbarcazioni di uno Stato attuano provvedimenti di intercettazione o di ricerca e salvataggio. Più specificamente, rimangono ancora oggi da stabilire le circostanze nelle quali uno Stato può essere tenuto ad assumere la responsabilità di esaminare una richiesta di asilo in applicazione del diritto internazionale in materia di rifugiati, in particolare laddove tale Stato sia impegnato in operazioni congiunte o in operazioni svolte nelle acque territoriali di un altro Stato, o in alto mare.
Sulle questioni che non sarebbero contemplate da accordi bilaterali o regionali, la definizione di “orientamenti pratici”, o della cd. “cooperazione pratica”, potrebbe conferire maggiore chiarezza e un certo grado di prevedibilità per quanto riguarda il rispetto degli obblighi imposti agli Stati membri dal diritto internazionale. Secondo la Commissione sarebbe stato quindi “opportuno redigere tali orientamenti in stretta collaborazione con l’Organizzazione marittima internazionale (OMI) e con l’UNHCR, e ricorrendo a una vasta gamma di consulenze. In particolare, andrebbe considerato attentamente il lavoro svolto nell’ambito dei pertinenti comitati dell’OMI, che fra l’altro riguarda l’attuazione degli obblighi in materia di ricerca e salvataggio basati sul diritto internazionale”.
25. La commissione europea avvertiva in sostanza il rischio che le misure contro l’immigrazione clandestina come i pattugliamenti congiunti, potessero risultare in contrasto con il diritto internazionale e con il diritto di asilo, anche nelle concrete modalità operative degli interventi di controllo delle frontiere marittime, ma rinviava ad un secondo momento la “ definizione di orientamenti pratici” a fronte della consapevolezza diffusa che comunque non si sarebbe mai arrivati ad una modifica immediata del diritto internazionale del mare a causa della impossibilità di trovare soluzioni generalmente condivise da parte dei diversi attori nazionali ed internazionali coinvolti.
26, Si è riproposta così l’esigenza di accordi bilaterali o su scala regionale ( come tra i paesi dell’Africa settentrionale e quelli dell’Europa meridionale). In assenza di canali di ingresso legale e di interventi idonei a praticare una autentica solidarietà con gli abitanti dei paesi più poveri, con iniziative affidate agli enti locali ed alle organizzazioni non governative, si è tentato di imporre ai governi degli stati di transito, soprattutto dei paesi nord-africani, accordi di collaborazione, basati sul finanziamento delle politiche di arresto, di detenzione e di espulsione dei migranti irregolari, prima che questi potessero tentare l’ultimo salto, la traversata verso l’Europa.
In questa direzione l’Italia e la Spagna hanno offerto gli esempi più eclatanti, nei rapporti, rispettivamente, con la Libia e con il Marocco, concludendo accordi bilaterali e/o intese a livello di forze di polizia che hanno permesso il blocco e l’arresto di migranti,in molti casi potenziali richiedenti asilo e minori non accompagnati, anche se provenienti da paesi terzi, in cambio di trattamenti preferenziali negli scambi commerciali con i paesi dell’area comunitaria.
27. Gli accordi conclusi tra l’Italia e la Libia nel dicembre del 2007 si inserivano in una logica concordata a livello europeo con l’allora vicepresidente Frattini, in una prospettiva di integrazione degli accordi stipulati su base bilaterale con le decisioni e la “cooperazione operativa” stabilite a livello comunitario, espressione delle politiche europee di controllo delle frontiere e di contrasto dell’immigrazione clandestina.
28. Il 26 gennaio del 2007 con un “Advisory Opinion on the Extraterritorial Application of Non-Refoulement Obligations under the 1951 Convention relating to the Status of Refugees and its 1967 Protocol”, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati precisava le condizioni per applicare il divieto di refoulement anche nei casi di una richiesta extraterritoriale di asilo, questione sulle quali le Direttive comunitarie non contengono indicazioni precise.
29. Secondo il punto 26. del rapporto “The obligation set out in Article 33(1) of the 1951 Convention is subject to a geographic restriction only with regard to the country where a refugee may not be sent to, not the place where he or she is sent from. The extraterritorial applicability of the non-refoulement obligation under Article 33(1) is clear from the text of the provision itself, which states a simple prohibition: “No Contracting State shall expel or return (“refouler”) a refugee in any manner whatsoever to the frontiers of territories where his [or her] life or freedom would be threatened…”.
30. Secondo il punto 27 del Rapporto “ The ordinary meaning of “return” includes “to send back” or “to bring, send, or put back to a former or proper place” The English translations of “refouler” “include words like ‘repulse’, ‘repel’, ‘drive back’. It is difficult to conceive that these words are limited to refugees who have already entered the territory of a Contracting State. The ordinary meaning of the terms “return” and “refouler” does not support an interpretation which would restrict its scope to conduct within the territory of the State concerned, nor is there any indication that these terms were understood by the drafters of the 1951 Convention to be limited in this way.”
31. Malgrado queste indicazioni dell’ACNUR, i casi di respingimento nelle acque internazionali, anche verso paesi poco rispettosi dei diritti umani, come la Libia e la Tunisia si vanno moltiplicando. Si può osservare come la revisione delle regole di comportamento degli stati nelle operazioni di salvataggio al limite delle acque territoriali, nelle zone contigue e nelle acque internazionali dovrebbe essere riformulato tenendo conto dei principi di solidarietà verso i migranti ed all’interno dell’Unione Europea, tra i diversi stati, con un rispetto scrupoloso del diritto internazionale e del diritto comunitario, ma anche tenendo conto dei criteri suggeriti dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Si tratta di una materia che non consente soluzioni demagogiche o misure basate sullo scambio dei vantaggi commerciali, ed anche le contese sulla delimitazione delle aree di intervento e soccorso, come sulle collegate zone di interesse commerciale, dovrebbero cedere al rispetto assoluto della salvaguardia della vita umana in mare, del divieto di trattamenti inumani e degradanti e dei diritti di asilo e di protezione internazionale, con particolare riferimento ai soggetti più vulnerabili come le donne ed i minori non accompagnati.