Lo scenario che sta prendendo forma da alcuni mesi intorno all’ "allarme pirati" nelle acque al largo del Corno d’Africa consente di mettere in luce alcune importanti evoluzioni geopolitiche internazionali che vanno ben al di là del semplice fenomeno rappresentato dall’espansione della criminalità marittima.
Tutti contro i “pirati”.
Con l’avallo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ha dedicato più in generale alla situazione somala dieci risoluzioni nel solo 2008, sul golfo di Aden convergono ormai le navi da guerra di tutte le maggiori potenze mondiali, dagli Stati uniti alla Cina, dall’India al Giappone, alla Russia, all’Iran, dando vita ad una situazione di affollamento militare per certi versi quasi paradossale, vista l’estrema sproporzione tra la massiccia mobilitazione di mezzi bellici e la consistenza dei nemici, per di più privi di un’identità politica precisa nonostante gli improbabili tentativi di rintracciare connessioni con la rete di Al Qaeda. Alla missione Enduring Freedom (OEF-HOA), attiva in quei mari ormai dal 2001 con il coinvolgimento di 11 paesi oltre agli Stati uniti, si è infatti aggiunta nel gennaio 2009 una nuova spedizione sempre a guida statunitense – questa volta con una ventina di stati impegnati e ben cinquanta unità navali –, la Combined Task Force (CTF) – 151, mentre sempre nei primi mesi dell’anno ha completato il suo dispiegamento la forza navale dell’Unione Europea Atalanta, che vede la partecipazione perfino di militari svizzeri.
Con l’avallo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ha dedicato più in generale alla situazione somala dieci risoluzioni nel solo 2008, sul golfo di Aden convergono ormai le navi da guerra di tutte le maggiori potenze mondiali, dagli Stati uniti alla Cina, dall’India al Giappone, alla Russia, all’Iran, dando vita ad una situazione di affollamento militare per certi versi quasi paradossale, vista l’estrema sproporzione tra la massiccia mobilitazione di mezzi bellici e la consistenza dei nemici, per di più privi di un’identità politica precisa nonostante gli improbabili tentativi di rintracciare connessioni con la rete di Al Qaeda. Alla missione Enduring Freedom (OEF-HOA), attiva in quei mari ormai dal 2001 con il coinvolgimento di 11 paesi oltre agli Stati uniti, si è infatti aggiunta nel gennaio 2009 una nuova spedizione sempre a guida statunitense – questa volta con una ventina di stati impegnati e ben cinquanta unità navali –, la Combined Task Force (CTF) – 151, mentre sempre nei primi mesi dell’anno ha completato il suo dispiegamento la forza navale dell’Unione Europea Atalanta, che vede la partecipazione perfino di militari svizzeri.
Se si considera infine che negli stessi mari opera una flotta appositamente costituita dalla NATO con il contributo di otto paesi compresi ancora una volta gli USA (SNMG 2), si può facilmente intuire come l’azione di contrasto nei confronti dei “pirati” sia forse solo l’obiettivo più immediato da perseguire, e in prospettiva non il più importante. Gli interessi strategici da tutelare sono infatti ben più consistenti della minaccia rappresentata dai corsari del Puntland somalo e sono strettamente legati alle dinamiche commerciali intensificatesi negli ultimi anni.
Panama, Suez e i flussi commerciali.
Nel pianeta si sta assistendo da anni a un impressionante aumento del commercio dei manufatti e delle risorse energetiche via mare, anche in virtù del definitivo ingresso sulla scena produttiva mondiale di Cina, India e delle altre economie emergenti. Questi sistemi produttivi, oltre a esportare enormi volumi di prodotti, sono pesantemente dipendenti dall’import di energia. Buona parte delle merci asiatiche non può che raggiungere Europa e Stati uniti via nave, mentre ormai due terzi del petrolio mondiale vengono trasportati con lo stesso veicolo. In questo contesto, il canale di Panama, sempre più penalizzato dall’insufficiente capienza nonché dal macchinoso sistema di chiuse, si avvia progressivamente a raggiungere la saturazione e a perdere il ruolo di “strada obbligata” e più economica per il trasporto dal Pacifico alla costa est degli USA. Molti armatori da qualche tempo cominciano a privilegiare un altro tragitto per arrivare alla East coast, solo apparentemente non conveniente, quello tramite il canale di Suez e il Mediterraneo.
Nel pianeta si sta assistendo da anni a un impressionante aumento del commercio dei manufatti e delle risorse energetiche via mare, anche in virtù del definitivo ingresso sulla scena produttiva mondiale di Cina, India e delle altre economie emergenti. Questi sistemi produttivi, oltre a esportare enormi volumi di prodotti, sono pesantemente dipendenti dall’import di energia. Buona parte delle merci asiatiche non può che raggiungere Europa e Stati uniti via nave, mentre ormai due terzi del petrolio mondiale vengono trasportati con lo stesso veicolo. In questo contesto, il canale di Panama, sempre più penalizzato dall’insufficiente capienza nonché dal macchinoso sistema di chiuse, si avvia progressivamente a raggiungere la saturazione e a perdere il ruolo di “strada obbligata” e più economica per il trasporto dal Pacifico alla costa est degli USA. Molti armatori da qualche tempo cominciano a privilegiare un altro tragitto per arrivare alla East coast, solo apparentemente non conveniente, quello tramite il canale di Suez e il Mediterraneo.
Secondo alcuni studi, presto la differenza di percorrenza tra Panama e Suez potrebbe ridursi a meno di tre giorni, e a ciò va aggiunto che, a differenza del canale centroamericano, quello egiziano possiede le caratteristiche per far transitare le imbarcazioni che contengono più container, ovvero le cosiddette “Post-Panamax”. Anche per questo motivo molti studiosi parlano con insistenza di «rinascita navale del Mediterraneo», aprendo la strada al concetto di «Mediterraneo allargato», che comprenderebbe anche Mar Rosso e Golfo Persico.
Il golfo di Aden è destinato dunque a diventare uno dei “choke points”, dei colli di bottiglia, dei traffici mondiali, ancor più di quanto lo sia già ora, visto che ogni giorno vi transitano almeno 2 milioni di barili di greggio e vi passa pressoché tutto l’export petrolifero diretto dai paesi arabi verso Europa e Stati uniti. Tali flussi, di carattere vitale, si svolgono per di più al largo delle coste di un non-stato, la Somalia, privo delle più elementari forme di esercizio della sovranità. Questi due elementi, la cruciale rilevanza strategica dell’area e l’inesistenza dello stato somalo, hanno reso pertanto le acque dove si muovono i “pirati” uno dei laboratori dove è possibile sperimentare i nuovi progetti di militarizzazione dei mari.
Il golfo di Aden è destinato dunque a diventare uno dei “choke points”, dei colli di bottiglia, dei traffici mondiali, ancor più di quanto lo sia già ora, visto che ogni giorno vi transitano almeno 2 milioni di barili di greggio e vi passa pressoché tutto l’export petrolifero diretto dai paesi arabi verso Europa e Stati uniti. Tali flussi, di carattere vitale, si svolgono per di più al largo delle coste di un non-stato, la Somalia, privo delle più elementari forme di esercizio della sovranità. Questi due elementi, la cruciale rilevanza strategica dell’area e l’inesistenza dello stato somalo, hanno reso pertanto le acque dove si muovono i “pirati” uno dei laboratori dove è possibile sperimentare i nuovi progetti di militarizzazione dei mari.
Militarizzazione e sicurezza dei mari.
Gli Stati uniti di Bush già nel 2005 hanno varato la nuova strategia per “sicurezza marittima”: tale direttiva ha sancito la possibilità di condurre operazioni unilaterali di maritime security, appunto, oppure di maritime interdiction, che mettono a dura prova le consolidate norme internazionali sulla circolazione in mare, tradizionalmente garantiste nei confronti dello stato costiero e dello stato di provenienza di ciascuna nave. Insieme alla Cina, che dal canto suo non sta a guardare visto che negli anni Novanta ha raddoppiato (dal 18,4% al 35%) la quota di budget militare destinata alla Marina, Washington ha formato con altri 22 paesi il «Gruppo di Contatto sulla Pirateria» (CGP), i cui mezzi bellici possono intervenire militarmente nelle acque, nei cieli e all’interno del territorio della Somalia, non per reagire a un contesto di guerra, ma per colpire i “pirati”.
E’ stato quindi creato un precedente potenzialmente pericoloso. Sembra profilarsi un modello secondo il quale le potenze mondiali sarebbero individualmente e collettivamente impegnate a garantirsi la sicurezza di vitali interessi commerciali ed economici in mare tramite il massiccio ricorso ai mezzi militari, con il conseguente restringimento del campo di azione della politica, dalla giurisdizione indipendente degli stati ai margini di manovra delle organizzazioni internazionali. Resta il dubbio di come un simile assetto, fondato al contempo sulla forza militare e sul presupposto di una concordia permanente tra paesi potenzialmente in conflitto sul piano economico, possa essere compatibile con un mercato internazionale che si vorrebbe all’insegna della libera circolazione delle merci.
Un’ultima annotazione, che ci riguarda da vicino: la scelta di politica energetica praticata da alcuni governi europei, tra i quali quello italiano, di perseguire la diversificazione delle fonti energetiche anche attraverso il copioso ricorso al GNL del Qatar trasportato da navi gasiere vede chiaramente indebolita la propria vocazione “emancipatrice” dai rischi connessi a una situazione, come quella descritta, tutt’altro che “fluida” e priva di costrizioni. I carichi di gas liquefatto, di cui si pianifica una crescita esponenziale, saranno anch’essi sempre più vincolati a una «strozzatura» fisica, quella del golfo di Aden, alla quale non si può in alcun modo ovviare, ma soprattutto dovranno fare i conti con gli equilibri necessariamente precari determinati dalla simultanea presenza di decine di Marine sempre meno “frenate” dal diritto internazionale del mare.
Alessandro Breccia per Aut-Aut
[L’immagine è tratta da repubblica.it]