Vita precaria: dai call center in poi


Giovedì
15/11/2007 ha avuto luogo, nel circolo Arci Pisanello (Riglione), un’iniziativa
pubblica che ha visto coinvolti lavoratori e studenti sul tema del precariato
nel mondo dei call centers.

L’iniziativa
è stata promossa dall’Associazione Culturale Aut-Aut, nell’ambito del Progetto
Editoriale Gramigna, con l’obiettivo di discutere, pubblicamente e con
l’intervento di esperti in materia, della terribile situazione che da anni
affligge migliaia di lavoratori delle telecomunicazioni, ormai assurti, anche
nell’immaginario comune, a vero e proprio paradigma del precario a vita. Sono
intervenuti l’avvocato militante Marco Guercio, da anni impegnato nei call
center,Beatrice Levatesi (call center Telegate), Marina Biggiero (operatrice
telefonica Cobas Roma).

L’idea di
una discussione pubblica su questo tema nasce da molteplici ragioni. Come già
detto, dalla drammaticità della situazione che colpisce questo settore, uno dei
più vessati dalla piaga della precarietà, che si manifesta, in questo contesto,
nelle forme più disparate e, persino, insospettabili. In secondo luogo, dall’attualità
del problema, dal momento che ultimamente abbiamo assistito ad una forte
mobilitazione dei lavoratori Vodafone contro la cessione di un ramo d’azienda
(a questo proposito e per maggiori informazioni, rimandiamo all’articolo Life
Is Now pubblicato su questo blog), che si è conclusa con un accordo al ribasso
promosso dai sindacati confederali e nella quale appaiono, in tutta la loro
evidenza, da un lato le difficoltà dei lavoratori a fare fronte comune contro
un’iniziativa aziendale scellerata, e dall’altro lato il ruolo ambiguo dei
sindacati che, venendo meno al loro dovere di rappresentare le istanze dei
lavoratori, firmano accordi con l’azienda, con il solo effetto di gettare acqua
sul fuoco del legittimo conflitto sociale.  Infine, dall’idea che un’iniziativa come
questa, benché trattasse una situazione specifica, potesse essere un utile
momento di incontro e di confronto tra chi questa situazione la vive sulla
propria pelle, chi, lavoratore precario, vive situazioni simili e chi,
studente, si trova inevitabilmente di fronte la prospettiva della precarietà
permanente.

L’iniziativa
è stata, come detto, strutturata come una discussione pubblica, in cui gli
interventi delle persone da noi invitate non hanno assunto la forma di una
lectio magistralis, ma sono invece serviti a qualificare il dibattito, portando
alla luce gli aspetti essenziali della questione e chiarificando il quadro
d’insieme.

La scelta
del luogo, un circolo ARCI nella periferia pisana, è stato un tentativo di
spostare “fisicamente” l’attenzione, per una volta, sulle realtà periferiche,
nelle quali i call centers sorgono e nelle quali, spesso, vivono le persone che
ci lavorano, data l’inaccessibilità economica dei quartieri centrali.

La
discussione è iniziata con l’intervento dell’avvocato Guercio, che recentemente
ha vinto una causa per conto di una lavoratrice precaria del call center
Telegate di Livorno.

Telegate è
un call center nato attorno ad un progetto legato a Seat Pagine Gialle. E’
situato in un capannone (Guasticce –LI-)
e impiega circa 300 lavoratori con contratto a progetto. Molti di questi
lavoratori, tra cui la ragazza in questione, sono entrati in Telegate con un
inquadramento contrattuale di tipo Co.Co.Co., divenuto poi contratto a progetto
successivamente all’entrata in vigore della legge 30 (impropriamente nota con
il nome di legge Biagi) che attualmente regolamenta il mercato del lavoro.
Formalmente questo tipo di contratto prevede, come il nome sta ad indicare,
un’ampia autonomia progettuale da parte del lavoratore, il cui rapporto di
lavoro con l’azienda dovrebbe esaurirsi nella realizzazione, appunto, di un progetto. Si tratterebbe, insomma, di un
obbligazione sul risultato e, una volta che esso sia stato raggiunto, il
rapporto lavorativo dovrebbe estinguersi. Inoltre il decreto attuativo Maroni
stabilisce che la finalità del progetto non deve coincidere con la ragione
sociale dell’azienda: in pratica, l’attività dell’azienda non deve coincidere
con quella del lavoratore a progetto. Se queste condizioni non sussistono,
l’inquadramento contrattuale del lavoratore deve essere di altro tipo (ad
esempio, lavoro subordinato).

Ma, se
abbandoniamo le forme e passiamo alla sostanza, subentra il problema di come il
datore di lavoro traduce in atto le disposizioni contrattuali. Punto primo, il
dipendente Telegate è sottoposto ad una rigidissima turnazione sugli orari di
lavoro, che prevede cambio di orari e di giorni di riposo di settimana in
settimana, con reperibilità sull’arco dell’intera giornata lavorativa (12-16 ore).
Egli non ha, quindi, la facoltà di gestire come vuole i tempi per la
realizzazione del  progetto, all’interno
del periodo previsto per il suo completamento. Punto secondo, il suo lavoro
consiste nell’effettuare telefonate, a privati o aziende, in cui deve seguire
un rigido protocollo scritto, che prescrive perfino cosa si deve dire quando il
cliente viene messo in attesa. Quello che gli si richiede è, in sostanza, un
lavoro da automa. Punto terzo, sussiste una diretta subordinazione economica da
parte del lavoratore nei confronti del datore di lavoro: egli, infatti, non
viene pagato per la realizzazione del progetto, ma è stipendiato.

Tutti
questi elementi escludono che questa fattispecie di lavoro possa rientrare
nell’inquadramento del contratto a progetto, trattandosi piuttosto di lavoro
subordinato. Per questo motivo, la lavoratrice si è rivolta, tramite i Cobas e l’associazione
PrecAut, allo studio legale dell’avvocato Guercio, per fare causa a Telegate e
ottenere di essere assunta con contratto a tempo indeterminato per lavoro
subordinato. La causa è stata vinta, ma questo risultato è stato accolto con
freddezza dalla Cgil, che stava contemporaneamente contrattando con Telegate la
stabilizzazione di questi lavoratori, pronta ad accettare un accordo che
prevedeva sì l’assunzione a tempo indeterminato, ma anche la rinuncia, da parte
dei lavoratori, a ottenere giustizia per gli anni trascorsi a lavorare nelle
condizioni viste. Inoltre, non si deve pensare che queste assunzioni abbiano
comportato un’uscita, per i dipendenti Telegate, dalla loro situazione di
precarietà. Non è cambiata, infatti, la tipologia di lavoro; non è cambiata la
turnazione, a dir poco vessatoria e che impedisce loro di poter progettare la
propria vita su tempi più lunghi di una settimana; non è cambiato il
trattamento economico, non certo generoso.

Ma, soprattutto,
il loro posto di lavoro non è diventato più sicuro. Non mancano certo
all’azienda, infatti, le possibilità per sbarazzarsi di parte di loro quando
venga ritenuto conveniente, come la vicenda della cessione del ramo di azienda
da parte di Vodafone dimostra. Nonostante tutto questo, il sindacato ha premuto
sui lavoratori affinché firmassero l’accordo, sia con la legittima propaganda
sindacale, sia con pressioni che un tempo sarebbero state appannaggio del
padrone, quali la minaccia di licenziamenti massicci nel caso l’accordo fosse
saltato. Il risultato è stato che quasi tutti i dipendenti hanno firmato
l’accordo, nel timore delle possibili conseguenze di un eventuale rifiuto.
Tutto questo è avvenuto nonostante il successo della causa della lavoratrice,
che dimostra che, anche nell’attuale situazione legislativa, è possibile, con
l’aiuto di un sindacato che faccia il proprio lavoro (Cobas) e di un avvocato
capace, portare avanti la causa dei lavoratori senza scendere ad inaccettabili
compromessi.

Il
dibattito è proseguito con l’intervento di una lavoratrice che ha firmato l’accordo
e che desiderava illustrare le ragioni di questa scelta, della quale si è
pentita. Fin dall’inizio, infatti, non avrebbe voluto firmare, ma la pressione
dovuta alle esigenze familiari l’ha fatta cedere. Forse, però, questo non
sarebbe accaduto se non si fosse registrata, in quel periodo, una forte
attività di mobbing nei confronti dei lavoratori più recalcitranti. Beatrice,
una lavoratrice Telegate appartenente ai Cobas e che ha rifiutato di firmare,
nel suo intervento denuncia, ad esempio, come l’operatore di sala (una sorta di
capo ufficio) si trattenesse dietro di lei a controllarla durante l’intero arco
della sua prestazione lavorativa. Inoltre, in entrambi gli interventi è stata
sottolineata la scarsa solidarietà tra colleghi, per lo più giovani, cui non
interessa imbarcarsi in lotte di rivendicazione, dal momento che contano, perso
un lavoro, di trovarne un altro equivalente.

A questo
punto è intervenuta Marina, una rappresentante dei Cobas che lavora per Atesia,
un call center Telecom di Roma, nel quale una parte dei lavoratori si è
auto-organizzata e, con l’aiuto dei Cobas, da anni combatte una battaglia per
ridurre il livello di sfruttamento del lavoro in questo settore, sbattendo
contro il muro eretto dai sindacati confederali e dalle istituzioni cittadine e
nazionali.

Atesia,
negli scorsi anni, era una vera e propria “fabbrica del precariato”. In seguito
ad una presunta stabilizzazione dei rapporti di lavoro, anche in questa realtà
si è giunti alle assunzioni a tempo indeterminato, ma i lavoratori oggi arrivano
addirittura a dire che stavano meglio prima, quando avevano il contratto precario.
Al solito, contratti part-time di quattro ore (e come tali retribuiti), ma con
orari di lavoro stabiliti dall’azienda di settimana in settimana, ruotando
nell’arco di 12-16 ore di disponibilità giornaliera; giorni di riposo
sottoposti alla stessa incertezza; cessioni di ramo d’azienda nelle quali
vengono liquidati i lavoratori più deboli (donne in là con l’età o con molti
figli, portatori di handicap etc.).

E in un
quadro così nero, si innestano le enormi difficoltà che i lavoratori incontrano
ogni qual volta debbono comunicare tra di loro, e organizzare una
mobilitazione. Difficoltà che non nascono semplicemente da un deficit di
volontà e partecipazione da parte loro, ma che discendono da una disgregazione
dei rapporti interpersonali sul posto di lavoro voluta e promossa dalle aziende
stesse, attraverso gli orari di ingresso al lavoro e delle pause sfalsati;
l’impiego di postazioni strutturate “a gabbia”, dalle quali è impossibile
comunicare con le postazioni vicine; la progressiva soppressione delle mense
aziendali. Esiste una bacheca, nella quale vengono affisse le comunicazioni
sindacali. Ma a potervi accedere sono soltanto i tre sindacati confederali; né
i Cobas né i lavoratori auto-organizzati hanno facoltà di affiggere alcunché. I
volantinaggi sono pressoché impossibili, visto che, come detto, i turni di
lavoro sono distribuiti, sfalsati tra loro, sull’arco di sedici ore, così come
le pause, e di questo siamo stati testimoni in prima persona nel nostro sforzo
di pubblicizzare questa iniziativa presso i call centers del nostro territorio.

Il
risultato è quell’atomizzazione del mondo del lavoro già denunciata, che unita
ad un’attività sindacale rivolta alla riduzione della conflittualità porta
all’indebolimento delle cause dei lavoratori, anche sul piano dell’azione
legale.

La parola è
tornata, quindi, a Guercio che, in virtù della sua esperienza ormai decennale
nelle cause del lavoro, ha invitato tutti i presenti a diffidare sempre e
sistematicamente di tutti coloro che parlano di modulazione e flessibilità del
lavoro. Ciò che si nasconde dietro i propositi di chi sostiene queste bandiere
è la volontà di ridurre il costo del lavoro a parità di prestazioni lavorative.
Tradotto, aumentare lo sfruttamento e distruggere la solidità del rapporto di
lavoro.

 E in questa tendenza alla riduzione del costo
del lavoro si colloca il meccanismo della cessione dei rami d’azienda, della
quale abbiamo parlato in relazione al caso Vodafone, e di cui Guercio ha
contribuito a chiarire il funzionamento: l’azienda madre cede tot lavoratori,
tipicamente a piccole cooperative che ricevono l’appalto per un qualche
servizio. In queste cooperative i lavoratori già presenti sono impiegati con
contratti a 6 euro l’ora, mentre nell’azienda madre i contratti erano a 10 euro
l’ora. Di solito, i sindacati si accordano per il mantenimento dei livelli
retributivi, contrattuali e occupazionali per qualche anno (2-3). Dopodiché,
dal momento che le procedure di licenziamento sono facilitate per aziende
piccole (sotto i 15 dipendenti), i lavoratori vengono licenziati, e riassunti
in una nuova cooperativa, creata ad hoc, con il contratto a 6 euro l’ora,
naturalmente. Il risultato di tutta l’operazione è, come detto, una riduzione
del costo del lavoro.

L’intervento
conclusivo è stato realizzato da Pierpaolo, un lavoratore membro della nostra
Associazione, che ha sottolineato come il quadro emerso da questa discussione
suggerisca la necessità di elaborare collettivamente una nuova strategia di
intervento nelle questioni del lavoro, dal momento che la realtà con la quale
ci dobbiamo confrontare non è più quella della contrattazione nazionale, sulla
quale si sono strutturati e hanno maturato la loro esperienza le forze
sindacali tradizionali, ma è quella del precariato, delle esternalizzazioni, dell’auto-sfruttamento
nelle cooperative, della destrutturazione del rapporto di lavoro e di un
sindacato sempre più prono a logiche concertative.

L’auspicio
è che le iniziative come questa, e quelle che seguiranno nelle prossime
settimane, contribuiscano a preparare e fertilizzare il terreno sul quale far
crescere una nuova stagione di conflitto sociale, che veda i lavoratori unirsi nel
combattere lo sfruttamento cui vengono sottoposti e nel rifiutare la logica del
precariato permanente che viene loro imposta.

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