Ne parlerà l’Associazione
di volontariato in carcere Controluce con un ciclo di incontri a partire dal 28
Marzo.
Sembra paradossale
argomentare del diritto alla salute poiché dovrebbe essere ovvio che è un
diritto naturale dell’uomo, in altre parole un diritto dell’essere umano in
quanto tale, ma la condizione particolare dello stato di detenzione è tale che
il detenuto si trasforma, a volte, in un uomo diverso con diversi diritti,
talvolta contrastanti il principio universale secondo il quale l’uomo ha
diritti propri perché essere umano.
Argomentare di salute
è quindi cimentarsi per costruire un equilibrio dialettico fra il soggetto e
l’ambiente, cioè fra le varie istanze istituzionali, è creare un dialogo
circolare, non è solamente la cura del momento e del bisogno. In concreto
parlare di salute è considerare il soggetto come persona inserita in un
contesto nel quale deve avere la possibilità di esplicare il suo diritto.
Ma questo non avviene
nelle carceri e mai, come in questo caso, è più vero il paradosso secondo cui
la malattia è considerata la cura.
Che la situazione
delle carceri in Italia viva, da tempo, in uno stato oggettivo di significativa
e drammatica precarietà, prossima a un punto di non ritorno, lo testimoniano il
numero dei detenuti più del doppio di quelli ospitabili, con una forte presenza
di soggetti in attesa di giudizio, il deterioramento delle condizioni di vita
che finisce per aumentare esponenzialmente lo stato di bisogno, la
diversificazione della popolazione carceraria con quote crescenti di
popolazione di stranieri, e la presenza di soggetti tossicodipendenti, elementi
che peggiorano, sul versante del trattamento, le dinamiche relazionali interne
inducendo un irrigidimento delle misure di controllo.
L’equazione che prende
corpo è che quando la vita in carcere continua a deteriorarsi crescono i rischi
per la salute (già di per se alti), si diffondono episodi di autolesionismo, di
violenza, i suicidi, sostanze psicoattive circolano facilmente e pratiche come
il lavoro, istruzione e attività culturali diminuiscono di peso specifico,
facendo perdere ulteriormente di legittimità sociale alla funzione del carcere.
Tutto questo mantiene
viva e risottolinea la questione per cui nella forma della detenzione vive un
contrasto particolarmente profondo e peculiare con i principi stessi dello
"stato di diritto", laddove si determina un impedimento totale o una
drastica limitazione della possibilità di estrinsecazione di una gamma ampia di
possibilità connesse all’esistenza individuale.
Sotto questo profilo
l’assunto secondo cui la reclusione dovrebbe comportare soltanto la privazione
della libertà costituisce una affermazione fuorviante sia dal punto di vista
teorico e, ancor più, pratico venendosi a perdere una sfera non determinabile e
delimitabile di diritti personali (L. Eusebi).
Il "principio di
equivalenza delle cure" sancito dall’Organizzazione Mondiale della
Sanità", come inderogabile necessità di garantire al detenuto le stesse
cure, mediche e psico-sociali, assicurate a tutti gli altri membri della
comunità, non esaurisce il principio per cui "mai le ragioni della
sicurezza possono mettere a rischio la salute e la vita".
Bisogna distinguere
tra "l’equità della salute" dalla semplice "equità della
cura", perché la prima non si riferisce alla semplice disponibilità di
servizi sanitari, quanto alla possibilità che, anche grazie agli stessi, possa
essere raggiunto, da parte dell’utente, un effettivo stato di salute
rispondente ai suoi reali bisogni.
La salute, quindi,
come costruzione sociale, capacità del soggetto di perseguire la sua concezione
di salute, di mantenere la propria capacità progettuale nelle scelte
esistenziali. Ma la salute in carcere non si costruisce e, così, nessuna
capacità progettuale per il detenuto.
Ancora una volta è il
soggetto umano, quello più sofferente, la sua storia, la sua realtà a essere
dimenticate, sacrificate a quegli stessi valori violati per cui la società ha
inflitto la pena e che presume siano anche il prezzo del riscatto della sua libertà.