La precarietà è donna, al 53% le “Atipiche”.


Rapporto Ires Cgil sull’occupazione femminile: “cresce ma è precaria e con salari inferiori a quelli degli uomini”.
 
Non c’è rapporto ormai che non certifichi l’esistenza di un discrimine di genere per le donne nell’accesso al mondo del lavoro.
Non solo di questo si tratta.

Per le donne il lavoro è in gran parte part time (non scelto, ma subìto), precario e meno retribuito.

Ieri l’istituto di ricerca della Cgil (Ires) ha reso noti i risultati dell’ultimo rapporto – «Donne e lavoro atipico: un incontro molto contraddittorio» – dell’Osservatorio sul lavoro atipico.

Tra il 1993 e il 2006 l’occupazione femminile è cresciuta più di quella maschile, fino a rappresentare nel 2006 quasi il 40% dell’occupazione totale.

Nello stesso periodo l’occupazione a carattere temporaneo è aumentata del 62%.
L’incremento maggiore è quello registrato dall’impiego part time (a cui va ricondotto più del 50% della nuova occupazione femminile), mentre contemporaneamente le ore di part time medie annuali hanno subìto un calo sensibile (il 46% delle donne lavoratrici non lavora più di 30 ore settimanali).
Ma il tempo parziale rappresenta una scelta consapevole solo per una minoranza di loro (il 36%).

Nonostante la crescita , il tasso di attività femminile continua a essere il più basso d’Europa (e nel nostro Mezzogiorno il ritardo si aggrava progressivamente).
Il 19% dell’occupazione totale femminile è precaria (mentre per gli uomini la quota si riduce all’11%), e il passaggio a forme contrattuali stabili è cosa che raramente le riguarda (solo il 14% delle donne, contro il 20% degli uomini).
Nel quarto trimestre 2006, le lavoratrici precarie, che comunque hanno un tasso di scolarizzazione più alto di quello degli uomini, erano il 53% del totale.

E sono ancora le donne a costituire anche la maggioranza dei parasubordinati a reddito esclusivo (coloro cioè che non hanno altre fonti di reddito).

Le cose non vanno meglio sul fronte del reddito.
Sempre considerando la platea dei parasubordinati (contratti di collaborazione o a progetto), le donne guadagnano mediamente il 56% di quanto percepiscono gli uomini (e il trend resta il medesimo al crescere della durata del contratto).
Anche nel caso di contratti interinali resta il gap retributivo: il 34% di queste lavoratrici guadagna da 800 a 1000 euro e il 37% meno di 1000 euro.

I contratti di collaborazione, dice ancora il rapporto, sono poco «conciliativi» con la famiglia e riprongono alle donne più giovani e più istruite quello che la segretaria generale del Nidil Cgil definisce «un dilemma che dovrebbe essere stato superato nel ‘900»: continuare a svolgere il proprio lavoro rinunciando alla famiglia e differendo la nascita dei figli, o affrontare i rischi di allontanamento dal lavoro.

Due sono le conclusioni del rapporto.

L’atipicità-flessibilità del contratto non garantisce la conciliazione, deprime il tasso di occupazione e natalità del paese e produce nuove forme di segregazione e disuguaglianze.

Di più, le differenze di genere nelle opportunità di lavoro e di guadagno rafforzano la tradizionale divisione del lavoro nella famiglia: il 77% del lavoro di cura della famiglia è un affare privato nel nostro paese, a carico esclusivamente dalle donne.
 
Sara Farolfi.
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