Immigrazione: un viaggio nella schiavitù contemporanea

 

Immigrazione: un viaggio nella schiavitù contemporanea.

 Presentazione del lavoro di inchiesta sull’Immigrazione

 

Nessuno ha in mano la soluzione ad uno dei più spinosi problemi del millennio: la gestione dei flussi migratori.

La strada della repressione del fenomeno, prima che sbagliata e atroce sul piano umano, è fallimentare.

Da un lato perché, a fronte di una popolazione in continuo e progressivo invecchiamento e di un’economia sempre più a corto di forza lavoro da impiegare nei lavori più indesiderabili, il fenomeno migratorio è visto anche dai più accigliati sostenitori del primato dell’interesse economico di pochi sul diritto all’esistenza di tutti come un’opportunità o quanto meno come un male necessario; dall’altro perché la forza che spinge un migrante a lasciare la propria terra per intraprendere una traversata verso l’ignoto, ben consapevole che sarà già fortunato se sopravviverà, sarà sempre in grado di travolgere tutti gli steccati che un patetico senatore padano o un ridicolo  post-fascista che gioca a scimmiottare De Gaulle potranno erigere.

Quindi che fare? Possono un braccio di mare, il crinale di un monte o una linea tracciata sulla carta darci il diritto di dire che noi stiamo di qua e degli altri “me ne frego”?

Noi diciamo di no.

Ma può questa convinzione fare breccia in una società egoista ed impaurita come la nostra?

In una società in cui spesso persino coloro che hanno avuto l’opportunità di studiare e di conoscere il mondo conservano nel profondo sacche di razzismo e di xenofobia difficilmente estirpabili?

Si può semplicemente dire a coloro che vivono in quartieri ad alta densità migratoria e che hanno visto crescere di pari passo il numero di migranti, il degrado e la criminalità che legare queste tre variabili con una relazione di uguaglianza è pericoloso oltre che sbagliato?

Lo scopo del lavoro di inchiesta sull’immigrazione che inizieremo da oggi è quello di diffondere informazioni  più che analisi politiche.

Partendo dal quadro normativo attualmente in vigore, ovvero il Testo Unico sull’Immigrazione nella forma che esso ha assunto in seguito alla riforma Bossi-Fini e ai relativi decreti attuativi, cercheremo di affrontare nel dettaglio i problemi specifici connessi con la vita del migrante nel suo rapporto con la “comunità ospitante” e le istituzioni che la rappresentano. Terremo in grande considerazione gli spunti che ci giungeranno di volta in volta dalla cronaca e dalla politica locale, senza dimenticare i più importanti casi di rilevanza nazionale. Cercheremo di offrire informazioni utili a coloro che, giunti in Italia da poco, e per questo ancora poco integrati anche con le comunità migranti connazionali, si trovano a dover affrontare difficoltà che l’ignoranza della legge fa apparire insormontabili. Faciliteremo la diffusione delle notizie attraverso un lavoro di traduzione degli articoli di specifico interesse.

Tuttavia non possiamo esimerci dal dovere di offrire, in questa prima uscita, alcune essenziali considerazioni su quello che è lo spirito e la lettera del Testo Unico sull’Immigrazione.

Ci preme anzitutto sottolineare come emerga, dall’impianto della legge, una concezione del migrante legata esclusivamente alla sua capacità lavorativa. Non si tiene in nessun modo in considerazione l’insieme delle istanze, dei bisogni e dei diritti di cui il migrante è portatore. Ciò è dimostrato dallo stretto legame che la legge instaura tra l’emissione e la durata dei permessi di soggiorno e quella dei contratti di lavoro. Si pretende che il migrante arrivi sul territorio nazionale “su chiamata”, ovvero già in possesso di un contratto. Il rinnovo del permesso, la cui validità non eccede in ogni caso i due anni, è subordinato al mantenimento di un posto di lavoro e non si concedono più di sei mesi di tempo a coloro che lo perdono per cercarne uno nuovo. Particolarmente eclatante è il caso dei lavori stagionali, per i quali la legge prevede che il lavoratore straniero soggiorni regolarmente in Italia esclusivamente nei mesi necessari al suo impiego, anche nel caso in cui questi siano ripartiti in modo discontinuo nell’anno.

Inoltre, si subordina il conseguimento del permesso di soggiorno al possesso di una serie di requisiti collegati al reddito e all’alloggio che, se da un lato vengono spacciati per misure volte a garantire condizioni di vita dignitose, dall’altro finiscono per costituire una barriera spesso invalicabile; basti pensare alle difficoltà che un migrante incontra nel trovare un alloggio a causa della diffidenza dei proprietari di appartamenti.

Se a tutto ciò aggiungiamo che la quota annuale di lavoratori ammessi dai decreti flussi è estremamente inferiore alla domanda reale del paese, sorge il ragionevole dubbio che si voglia mantenere una grande percentuale di clandestinità al fine di alimentare un’economia sommersa legata allo sfruttamento illegale di manodopera in condizioni disumane, talvolta assimilabili a nuove forme di schiavitù.

Resta da evidenziare la pochezza delle misure volte all’integrazione dello straniero nella comunità ospitante, misure la cui attuazione è in ogni caso sistematicamente delegata agli enti locali, ed è dunque passibile di sensibili differenze da un territorio all’altro. In questo contesto particolarmente gravi ci appaiono le restrizioni e gli ostacoli di cui è disseminato l’iter per l’ottenimento del nulla osta al ricongiungimento familiare, passaggio fondamentale di qualsiasi reale percorso di integrazione.

Non possiamo infine nasconderci che il Testo Unico sull’Immigrazione è frutto del lavoro di due legislature, nelle quali si sono succeduti governi di centrosinistra e di centrodestra. Sebbene la riforma Bossi-Fini, con l’introduzione del reato penale di immigrazione clandestina, con il sistematico inasprimento delle pene previste per i reati connessi con il fenomeno migratorio e con l’aumento degli ostacoli all’ingresso regolare degli stranieri, abbia certamente rappresentato un arretramento non si rilevano particolari discontinuità con il Testo precedentemente approvato grazie al lavoro dell’allora ministro degli Interni Giorgio Napolitano e dall’allora ministro delle Politiche Sociali Livia Turco.

Da un lato perché, a fronte di una popolazione in continuo e progressivo invecchiamento e di un’economia sempre più a corto di forza lavoro da impiegare nei lavori più indesiderabili, il fenomeno migratorio è visto anche dai più accigliati sostenitori del primato dell’interesse economico di pochi sul diritto all’esistenza di tutti come un’opportunità o quanto meno come un male necessario; dall’altro perché la forza che spinge un migrante a lasciare la propria terra per intraprendere una traversata verso l’ignoto, ben consapevole che sarà già fortunato se sopravviverà, sarà sempre in grado di travolgere tutti gli steccati che un patetico senatore padano o un ridicolo  post-fascista che gioca a scimmiottare De Gaulle potranno erigere.

Quindi che fare? Possono un braccio di mare, il crinale di un monte o una linea tracciata sulla carta darci il diritto di dire che noi stiamo di qua e degli altri “me ne frego”?

Noi diciamo di no.

Ma può questa convinzione fare breccia in una società egoista ed impaurita come la nostra?

In una società in cui spesso persino coloro che hanno avuto l’opportunità di studiare e di conoscere il mondo conservano nel profondo sacche di razzismo e di xenofobia difficilmente estirpabili?

Si può semplicemente dire a coloro che vivono in quartieri ad alta densità migratoria e che hanno visto crescere di pari passo il numero di migranti, il degrado e la criminalità che legare queste tre variabili con una relazione di uguaglianza è pericoloso oltre che sbagliato?

Lo scopo del lavoro di inchiesta sull’immigrazione che inizieremo da oggi è quello di diffondere informazioni  più che analisi politiche.

Partendo dal quadro normativo attualmente in vigore, ovvero il Testo Unico sull’Immigrazione nella forma che esso ha assunto in seguito alla riforma Bossi-Fini e ai relativi decreti attuativi, cercheremo di affrontare nel dettaglio i problemi specifici connessi con la vita del migrante nel suo rapporto con la “comunità ospitante” e le istituzioni che la rappresentano. Terremo in grande considerazione gli spunti che ci giungeranno di volta in volta dalla cronaca e dalla politica locale, senza dimenticare i più importanti casi di rilevanza nazionale. Cercheremo di offrire informazioni utili a coloro che, giunti in Italia da poco, e per questo ancora poco integrati anche con le comunità migranti connazionali, si trovano a dover affrontare difficoltà che l’ignoranza della legge fa apparire insormontabili. Faciliteremo la diffusione delle notizie attraverso un lavoro di traduzione degli articoli di specifico interesse.

Tuttavia non possiamo esimerci dal dovere di offrire, in questa prima uscita, alcune essenziali considerazioni su quello che è lo spirito e la lettera del Testo Unico sull’Immigrazione.

Ci preme anzitutto sottolineare come emerga, dall’impianto della legge, una concezione del migrante legata esclusivamente alla sua capacità lavorativa. Non si tiene in nessun modo in considerazione l’insieme delle istanze, dei bisogni e dei diritti di cui il migrante è portatore. Ciò è dimostrato dallo stretto legame che la legge instaura tra l’emissione e la durata dei permessi di soggiorno e quella dei contratti di lavoro. Si pretende che il migrante arrivi sul territorio nazionale “su chiamata”, ovvero già in possesso di un contratto. Il rinnovo del permesso, la cui validità non eccede in ogni caso i due anni, è subordinato al mantenimento di un posto di lavoro e non si concedono più di sei mesi di tempo a coloro che lo perdono per cercarne uno nuovo. Particolarmente eclatante è il caso dei lavori stagionali, per i quali la legge prevede che il lavoratore straniero soggiorni regolarmente in Italia esclusivamente nei mesi necessari al suo impiego, anche nel caso in cui questi siano ripartiti in modo discontinuo nell’anno.

Inoltre, si subordina il conseguimento del permesso di soggiorno al possesso di una serie di requisiti collegati al reddito e all’alloggio che, se da un lato vengono spacciati per misure volte a garantire condizioni di vita dignitose, dall’altro finiscono per costituire una barriera spesso invalicabile; basti pensare alle difficoltà che un migrante incontra nel trovare un alloggio a causa della diffidenza dei proprietari di appartamenti.

Se a tutto ciò aggiungiamo che la quota annuale di lavoratori ammessi dai decreti flussi è estremamente inferiore alla domanda reale del paese, sorge il ragionevole dubbio che si voglia mantenere una grande percentuale di clandestinità al fine di alimentare un’economia sommersa legata allo sfruttamento illegale di manodopera in condizioni disumane, talvolta assimilabili a nuove forme di schiavitù.

Resta da evidenziare la pochezza delle misure volte all’integrazione dello straniero nella comunità ospitante, misure la cui attuazione è in ogni caso sistematicamente delegata agli enti locali, ed è dunque passibile di sensibili differenze da un territorio all’altro. In questo contesto particolarmente gravi ci appaiono le restrizioni e gli ostacoli di cui è disseminato l’iter per l’ottenimento del nulla osta al ricongiungimento familiare, passaggio fondamentale di qualsiasi reale percorso di integrazione.

Non possiamo infine nasconderci che il Testo Unico sull’Immigrazione è frutto del lavoro di due legislature, nelle quali si sono succeduti governi di centrosinistra e di centrodestra. Sebbene la riforma Bossi-Fini, con l’introduzione del reato penale di immigrazione clandestina, con il sistematico inasprimento delle pene previste per i reati connessi con il fenomeno migratorio e con l’aumento degli ostacoli all’ingresso regolare degli stranieri, abbia certamente rappresentato un arretramento non si rilevano particolari discontinuità con il Testo precedentemente approvato grazie al lavoro dell’allora ministro degli Interni Giorgio Napolitano e dall’allora ministro delle Politiche Sociali Livia Turco.

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