Riportiamo un’intervista di Giuseppe D’avanzo, giornalista di Repubblica, a Marco Poggi, infermiere in servizio alla caserma di Bolzaneto durante il vertice G8 di Genova nel 2001. Dai fatti di quei giorni è uscito un libro "Quegli uomini dovevano essere sospesi". MARCO Poggi, infermiere
penitenziario, entrò in servizio a Bolzaneto alle 20 di venerdì 20 luglio 2001
e ci rimase fino alle 15, 15.30 di domenica 22 luglio. "Ho visto picchiare
con violenza e ripetutamente i detenuti presenti con schiaffi, pugni, calci,
testate contro il muro". "Picchiava la polizia di stato ma
soprattutto il "gruppo operativo mobile" e il "nucleo
traduzioni" della polizia penitenziaria. Ho visto trascinare un detenuto
in bagno, da tre o quattro agenti della "penitenziaria". Gli
dicevano: "Devi pisciare, vero?". Una volta arrivati nell’androne del
bagno, ho sentito che lo sottoponevano a un vero e proprio linciaggio…".
Marco Poggi dice che sa che cos’è
la violenza. "Ci sono cresciuto dentro. Ho "rubato" la terza
elementare ai corsi serali delle 150 ore e sono andato infermiere in carcere
per buscarmi il mio pezzo di pane. Per anni ho lavorato al carcere della Dozza
a Bologna. Un posto mica da ridere. Tossici, ladri di galline, mafiosi, trans,
stupratori. La violenza la respiravi come aria, ma quel che ho visto a
Bolzaneto in quei giorni non l’avrei mai ritenuto possibile, prima. Alcuni
detenuti non capivano come fare le flessioni di routine previste dalla
perquisizione di primo ingresso in carcere. Meno capivano e più venivano
picchiati a pugni e calci dagli agenti della polizia penitenziaria. Gli
ufficiali, i sottufficiali guardavano, ridevano e non intervenivano. Ho visto
il medico, vestito con tuta mimetica, anfibi, maglietta blu con stampato sopra
il distintivo degli agenti della polizia penitenziaria, togliere un piercing
dal naso di una ragazza che era in quel momento sottoposta a visita medica e
intanto le diceva: "Sei una brigatista?"".
Marco Poggi è "l’infame di
Bolzaneto". Così lo chiamavano alcuni agenti della
"penitenziaria" e lui, in risposta, per provocazione, per orgoglio,
per sfida, proprio in quel modo – Io, l’infame di Bolzaneto – ha voluto
titolare il libro che raccoglie la sua testimonianza. Poggi è stato il primo –
tra chi era dall’altra parte – a sentire il dovere di rompere il cerchio del
silenzio. "Delle violenze nelle strade di Genova – dice – c’erano le
immagini, le foto, i filmati. Tutto è avvenuto alla luce del sole. A Bolzaneto,
no. Le violenze, le torture si sono consumate dietro le mura di una caserma, in
uno spazio chiuso e protetto, in un ambiente che prometteva impunità. Solo chi
l’ha visto, poteva raccontarlo. Solo chi c’era poteva confermare che il
racconto di quei ragazzi vittime delle violenze era autentico. Io ero tra
quelli. Che dovevo fare, allora? Dopo che sono tornato a casa da Genova, per
giorni me ne sono stato zitto, anche con i miei. Io sono un pavido, dico
sempre. Ma in quei giorni avevo come un dolore al petto, un sapore di amaro
nella bocca quando ascoltavo il bla bla bla dei ministri, le menzogne, la noncuranza
e infine le accuse contro quei ragazzi. Non ho studiato – l’ho detto – ma la
mia famiglia mi ha insegnato il senso della giustizia. Non ho la fortuna di
credere in Dio, ho la fortuna di credere in questa cosa – nella giustizia – e
allora mi sono ripetuto che non potevo fare anch’io scena muta come stavano
facendo tutti gli altri che erano con me, accanto a me e avevano visto che quel
che io avevo visto. Ne ho parlato con i miei e loro mi hanno detto che dovevo
fare ciò che credevo giusto perché mi sarebbero stati sempre accanto. E l’ho
fatta, la cosa giusta. Interrogato dal magistrato, ho detto quel che avevo
visto e non ci ho messo coraggio, come mi dicono ora esagerando. Non sono
matto. Ci ho messo, credo, soltanto l’ossequio per lo stato, il rispetto per il
mio lavoro e per gli agenti della polizia carceraria – e sono la stragrande
maggioranza – che non menano le mani". Marco Poggi ha pagato il prezzo
della sua testimonianza. "Beh! – dice – un po’ sì, devo dirlo. Dopo la
testimonianza, in carcere mi hanno consigliato – vivamente, per dire così – di
lasciare il lavoro. Dicevano che quel posto per me non era più sicuro. Qualcuno
si è divertito con la mia auto, rovinandomela. Qualche altro mi ha spedito la
mia foto con su scritto: "Te la faremo pagare". Il medico con la
mimetica e gli anfibi mi ha denunciato per calunnia. Ma il giudice ha
archiviato la mia posizione e con il lavoro mi sono arrangiato con contratti
part-time in case di riposo per anziani. Oggi, anche se molti continuano a
preoccuparsi della mia integrità più di quanto faccia solitamente la mia
famiglia, sono tornato a lavorare in carcere, allo psichiatrico di Castelfranco
Emilia. Mi faccio 160
chilometri al giorno, ma va bene così. Sono tutti
gentili con me, l’infame di Bolzaneto".
Dice Marco Poggi che "se i
reati non ci sono – se la tortura non è ancora un reato – non è che te li puoi
inventare". Dice che lui "lo sapeva fin dall’inizio che poi le
condanne sarebbero state miti e magari cancellate con la prescrizione". Dice
Poggi che però "quel che conta non è la vendetta. La vendetta è sempre
oscena. Il direttore del carcere di Bologna Chirolli – una gran brava persona
che mi ha insegnato molte cose sul mio lavoro – ci ripeteva sempre che lo Stato
ha il dovere di punire e mai il diritto di vendicarsi. Mi sembra che sia una
frase da tenere sempre a mente. Voglio dire che importanza ha che quelli di
Bolzaneto, i picchiatori, non andranno in carcere? Non è che uno voglia vederli
per forza in gabbia. La loro detenzione potrebbe apparire oggi soltanto una
vendetta, mi pare. Quel che conta è che siano puniti e che la loro punizione
sia monito per altri che, come loro, hanno la tentazione di abusare
dell’autorità che hanno in quel luogo nascosto e chiuso che è il carcere, la
questura, la caserma. Per come la penso io, la debolezza di questa storia non è
nel carcere che quelli non faranno, ma nella sanzione amministrativa che non
hanno ancora avuto e che non avranno mai. Che ci vuole a sospenderli da
servizio? Non dico per molto. Per una settimana. Per segnare con un buco nero
la loro carriera professionale. È questa la mia amarezza: vedere i De Gennaro,
i Canterini, i Toccafondi al loro posto, spesso più prestigioso del passato,
come se a Genova non fosse accaduto nulla. Io credo che bisogna espellere dal
corpo sano i virus della malattia e ricordarsi che qualsiasi corpo si può
ammalare se non è assistito con attenzione. Quella piccola minoranza di
poliziotti, carabinieri, agenti di polizia penitenziaria, medici che è si
abbandonata alle torture di Bolzaneto è il virus che minaccia il corpo sano.
Sono i loro comportamenti che hanno creato e possono creare, se impuniti,
sfiducia nelle istituzioni, diffidenza per lo Stato. Possono trasformare gli
uomini in divisa – tutti, i moltissimi buoni e i pochissimi cattivi – in nemici
del cittadino. Non ci vuole molto a comprendere – lo capisco anch’io e non ho
studiato – che soltanto se si fa giustizia si potrà restituire alle vittime di
Genova, ai giovani che vanno in strada per manifestare le loro idee, fiducia nella
democrazia e non rancore e frustrazione. I giudici fanno il loro lavoro, ma
devono fare i conti con quel che c’è scritto nei codici, con quel che viene
fuori dai processi. Non parlo soltanto dei processi, è chiaro. Parlo della
responsabilità della politica. Che cosa ha fatto la politica per sanare le
ferite di Genova? Gianfranco Fini, che era al governo in quei giorni, disse
che, se fossero emerse delle responsabilità, sarebbero state severamente
punite. Perché non ne parla più, ora che quelle responsabilità sono alla luce
del sole? Perché Luciano Violante si oppose alla commissione parlamentare
d’inchiesta? Dopo sette anni questa pagina nera rischia di chiudersi con una
notizia di cronaca che dà conto di una sentenza di condanna, peraltro
inefficace, senza che la politica abbia fatto alcuno sforzo per riconciliare lo
Stato e le istituzioni con i suoi giovani. Ecco quel che penso, e temo".
(18 marzo 2008)
Processo inutile a Genova: per le torture di Bolzaneto nessuno andrà in carcere
I centri sociali occupano la sede del Pd