In questo intervento l’architetto pisano Alessandro Baldassari spiega perchè è importante che, nel quartiere Stazione di Pisa, continui ad esistere e a lavorare l’esperienza del Progetto Rebeldia. Partendo da una riflessione sulla presenza migrante nella zona.
Carissimi, mi dispiace molto non poter essere presente Venerdì alla presentazione del progetto che l’ Amministrazione Comunale, attraverso le sue consociate, vuole realizzare sull’ area dove Rebeldia svolge da tempo la propria attività. Si tratta di un’ occasione importante per cercare di contribuire a fare chiarezza su una situazione che ormai da molto tempo cattura l’attenzione di diverse componenti della città.
Credo che innanzi tutto si debbano distinguere i diversi aspetti della questione: quella che si intende compiere sull’area del Rebeldia, attraverso la realizzazione della stazione degli autobus e di un nuovo edificio di sette piani è una operazione sostanzialmente immobiliare, legittima in quanto legittimata dal piano strutturale di cui la stessa amministrazione che intende eseguire le opere si è dotata.
Ciò però ha poco a che vedere con il presunto risanamento del quartiere della stazione. e questa è l’altra questione.
Se vogliamo fare un po’ di storia, guardando come le stazioni sono intervenute nella storia della città europea, possiamo trovare diverse analogie tra le diverse realtà anche cambiando notevolmente di latitudine.
Presentate sul finire del secolo XIX come l’arrivo della modernità all’interno della città, le aree urbane prossime alle stazioni hanno via via visto presentarsi gli stessi problemi: difficoltà di collegamento con il resto dell’abitato, dovute alla cesura fisica del tessuto urbano, generazione di un ambito in cui storicamente si sono venuti a condensare ceti economicamente più deboli, aree soggette ad una certa trascuratezza delle amministrazioni locali, trattate non diversamente dalle officine o dalle fabbriche sorte all’interno della città.
Quartieri, in una parola, a carattere prettamente utilitaristico, una sorta di ventre operoso della città.
Naturalmente ciò ha significato nel tempo la formazione di quartieri abitati da una popolazione costituita prevalentemente da ceti operai e poi da immigrati: prima da immigrati dal Sud Italia, che in queste aree si sono insediati ed hanno intrapreso le proprie attività, poi dall’ immigrazione proveniente dall’estero che è venuta a sostituire quella interna.
Non diversamente è andata per il quartiere della Stazione a Pisa: attualmente il quartiere della Stazione, più genericamente quello che costituiva il territorio della scomparsa Circoscrizione 4, presenta il più alto tasso di stranieri residenti: quasi il doppio, per dire, rispetto alla ex Circoscrizione 1 [quella del litorale pisano, ndr] e oltre il 30% in più rispetto agli altri quartieri, con circa 9 residenti stranieri ogni cento abitanti (la media nazionale, per fare un raffronto, è del 2,3%).
E’ quindi evidente che si tratta di un quartiere delicato, il primo in cui il contatto tra residenti italiani e residenti stranieri è più fitto, più diretto. In un ambito come questo pensare che un piccolo parco urbano come quello che si prevede di realizzare una volta liberata l’area prospiciente le mura dalla stazione degli autobus – parco che comunque non verrà realizzato con questo intervento in cui lo scambio economico è solo quello della realizzazione dell’edificio di sette piani in cambio della stazione degli autobus (un po’ come un cane da un milione in cambio di due gatti da cinquecentomila lire…) – è un’idea tenera ma che appartiene ad un modo ottocentesco di concepire l’urbanistica.
Già nel primo Novecento le amministrazioni locali inglesi e francesi erano costrette a truccare i dati nel tentativo di dimostrare che le aree dove si realizzavano i parchi urbani erano quelle dove accadevano meno delitti, e comunque questo dato è ben chiaro a chiunque abbia pensato di avventurarsi in Central Park a New York dopo le 5 di sera.
Questo naturalmente non significa essere contro alla realizzazione dei parchi all’interno della città ma solo che non si deve confondere qualità urbana ed integrazione.
Perchè proprio di integrazione, pensando al quartiere della Stazione di Pisa e più in generale a tutti i quartieri “di contatto” delle città europee, si tratta. In un ambito urbano in cui la presenza di popolazioni provenienti da paesi diversi è così alta, la prima preoccupazione di una Amministrazione deve naturalmente essere quella delle possibilità di mediazione (culturale, sociale, di animazione ecc.), vorrei quasi dire di soluzioni di ammortizzazione delle difficoltà di rapporti che la convivenza di appartenenti al genere umano diversi per provenienza, cultura ed abitudini genera da che mondo è mondo.
La sfida dell’urbanistica contemporanea – lo dico da amico dell’urbanistica e non certo da specialista – è proprio quella di coniugare le trasformazioni urbane con il miglioramento – e non il peggioramento – delle possibilità di incontro, di mediazione, di integrazione: in una parola delle possibilità di vivere serenamente la città.
E’ un tipo di urbanistica che non si limita a considerare la città come un gigantesco Monòpoli in cui la sola attività necessaria è quella di riempire di case ed alberghi i buchi vuoti delle caselle.
Ma anche nel Monòpoli esiste la carta degli Imprevisti, che amministrazioni ed imprenditori pescano malvolentieri: gli imprevisti sono i costi sociali che è necessario sostenere quando si interviene in contesti tanto delicati, a meno che non si voglia credere che in un quartiere dove insiste già la stazione ferroviaria, un grande parcheggio interrato (quando sarà terminato…) e la stazione degli autobus, il potenziamento di un ulteriore parcheggio possa costituire un intervento di risanamento.
E tutto ciò senza offrire al quartiere nessuna contropartita in termini di miglioramento della vivibilità e delle possibilità di interazione non conflittuale che non sia semplicemente costituita da una striscia di verde, certamente importante, ma del tutto di là da venire.
Per sovramercato le stazioni di autobus costituiscono un luogo dove due fasce estremamente deboli della popolazione, gli anziani e gli immigrati – che, come sa chiunque abbia preso recentemente un mezzo pubblico ne costituiscono la maggioranza dell’ utenza – vengono a contatto amplificando sia le potenziali problematiche che le potenzialità.
In questo contesto l’esperienza di Rebeldia – qui ed ora – rappresenta un unicum. E’ un tentativo di dare, nella modernità, risposte alla necessità di rapporti che il mondo, globalizzato con o senza il nostro consenso, ci impone. La presenza all’interno del cosiddetto “Cartello Rebeldia” di associazioni le più diverse, ma il cui scopo è comunque quello di costituire un ponte tra residenti italiani e stranieri del quartiere, costituisce un laboratorio a cui un’Amministrazione avvertita dovrebbe guardare con rispetto e con il massimo dell’interesse.
Ancor più oggi, quando le possibilità di mediazione offerte sul territorio dalle Circoscrizioni sono state cancellate e più nessun cuscinetto si pone tra l’Amministrazione centrale ed i cittadini.
Dobbiamo serenamente chiederci come il confronto tra le intenzioni dell’ amministrazione e le attività del quartiere andrà a finire: io credo che finirà non diversamente da come vorranno tutti i soggetti interessati: amministrazione locale, cittadini italiani e stranieri, associazioni impegnate nella mediazione sociale.
Quello che può rappresentare un laboratorio originale per l’ integrazione della cittadinanza non merita di essere sostituito – senza alternative – da una iniziativa che complicherà i rapporti all’interno del quartiere – in senso anche di aumento di traffico, rumore, inquinamento – anziché alleggerirli.
So per esperienza – ormai, ahimè, annosa – che niente nelle vicende urbane è ineluttabile quando si incontra l’attenzione di una Amministrazione avvertita: non esistono processi economici o urbanistici che non si possano arrestare anche all’ultimo momento quando possono costituire un danno per la popolazione ed alcune esperienze di questi ultimi anni sono lì a confermarlo.
Spero davvero che anche questa volta la razionalità e l’amicizia per la nostra città prevarranno: forse il posto delle associazioni che si occupano di proteggere i più poveri ed i più deboli è davvero in mezzo ad una strada, ma non è bello stare dalla parte di chi ce le mette.
Un caro saluto, Alessandro Baldassari.
vedi anche: Pisa: presentato il progetto Sestaporta. Per una città sull’orlo del collasso.