Lettera aperta a partire dalla norma anti-precari.

Non c’è pace per l’Italia. Se già all’indomani delle elezioni politiche parlavamo di "emergenza democratica" in un paese dove abbiamo quotidianamente messo in discussione la stessa parola democrazia, i decreti varati dal governo Berlusconi non lasciano dubbi: la democrazia è finita, da ogni punto di vista, sociale, politico, economico.

L’Italia sta per fallire. Eppure il conto ai lavoratori non l’ha preparato il Governo, bensì la Commissione Bilancio della Camera, che ha approvato una norma da inserire nel famoso maxi emendamento alla manovra economica che prevede l’impossibilità di rivolgersi alla giustizia per denunciare un rapporto di lavoro irregolare ed obbligare così il datore di lavoro all’integrazione del lavoratore con contratto a tempo indeterminato.

Se com’è facile questa norma passasse, d’ora in poi (la norma varrebbe anche per le cause in corso) il massimo che potrà ottenere il precario sarà un multiplo del suo stipendio mensile, potremmo definirla una buonuscita garantita, visto che molti precari non hanno neanche quella; per le aziende invece è una vera manna dal cielo, visto che soprattutto le più grandi in questi anni hanno assunto solo precari, che hanno intentato molte cause presso il giudice del lavoro.

Sembra anzi che la ratio della legge vada ricercata proprio nella crisi economica che attanaglia le imprese italiane, che si ritroverebbero nella situazione di versare parecchi euro nelle tasche dei lavoratori fra contributi pensione, ferie, malattie e tutti gli annessi e connessi che sono garantiti nei contratti a tempo indeterminato (sarebbe più giusto chiamarli contratti atipici? Tanto, ormai…).

La norma, già definita dai media "anti precari", condanna in pratica tutti i lavoratori assunti con contratti atipici alla perenne instabilità del rapporto di lavoro, essendo già stato verificato che il ricorso alla giustizia nei casi di irregolarità era rimasta per il precario l’unica strada per sperare di ottenere un contratto "vero".

La norma stranamente non è un decreto, ma viene proposta dalla Commissione Bilancio della Camera, a cui addirittura il ministro Sacconi giura di aver posto dei limiti, mitigando le misure decise in Commissione, e dichiarando subito alla stampa: "Non è colpa nostra", tale e quale al proverbiale colpevole colto con le dita nella marmellata che dice "Non sono stato io".

Immediata la reazione dei sindacati: "È una vergogna", eccetera, dice il coro Cgil-Cisl-Uil. Subito dopo hanno ripreso a smantellare i vari contratti collettivi nazionali dei dipendenti pubblici e privati.

Di parere opposto Confindustria: "il provvedimento va nella direzione giusta – commenta il direttore generale di Confindustria Maurizio Beretta – un po’ di semplificazione e di minor rigidità è quello che serve al mercato del lavoro. In questo, come in altri casi, non è di sanzioni che abbiamo bisogno ma di norme praticabili, che abbiano un senso logico rispetto alla situazione reale".

Il senso logico che i precari e i disoccupati intendono è che la situazione reale l’aveva letta benissimo il Partito Democratico durante la campagna elettorale allorché indicava alla gente di scegliere non tanto "quale partito, ma quale paese".

A proposito, la protesta del Partito Democratico si è levata aspra e forte, ma non l’ha sentita nessuno perché i microfoni erano spenti.

La situazione è realmente disastrosa. Tutte le analisi economiche mondiali ci danno per spacciati, nessuno dice "Argentina" perché la Borsa crollerebbe subito, ma è un dato di fatto che c’è una generale crisi dei consumi, degli investimenti, del risparmio, in pratica di tutte le voci di domanda di mercato che fanno vivere un paese capitalista. Ad oggi tutti i costi della recessione imminente sono stati scaricati sul lavoro e sulle famiglie, già frustrate da un costo della vita insostenibile.

Non possiamo cercare l’alternativa nel tornado che ha sconvolto la sinistra istituzionale, che in due governi non ha mai avuto il coraggio e/o l’intenzione di assumersi responsabilità concrete di governo di fronte al popolo, rinunciando sempre (volente o nolente) ai ministeri più importanti.

Ma è pur vero che bisogna guardarsi negli occhi. Lo scenario fa schifo, ma noi non dobbiamo puntare mica a salvare il paese, al di là della raggiungibilità o della desiderabilità dell’obiettivo.

Si tratta di sopravvivere, materialmente, economicamente. In un paese in cui è impossibile farsi una famiglia perché costa troppo, bisogna chiedersi cosa vogliamo, perché a questo punto è giusto difendere il diritto alla famiglia, alla convivenza, ad ogni forma di costruzione di immaginario del futuro, perché è paradossale che nel paese per eccellenza dominato dalla Chiesa persino una famiglia "normale" sia un diritto negato di fatto.

Di proposito non citiamo tutti gli altri diritti negati, e i soggetti a cui sono negati, ma sono praticamente tutti. L’unico diritto che ci resta, baluardo del sistema del capitale, è, forse, il diritto d’impresa.

Immaginare un futuro vuol dire partire da questo? Oppure l’alternativa è lo sciopero generalizzato? Oppure bisogna prepararsi ad andare in montagna, perché cominceranno a farci male sul serio?

Non c’è dittatura morbida, non esiste il "regime mite", bisogna affilare le armi per una crisi economica che non sembra avere uscita e che inevitabilmente rende più dure persino le scelte dei novelli dittatori di seta.

Si può provare a costruire economie di rete, seguendo alcuni esperimenti in corso. Sicuramente internet mette in luce la capacità di tanti di costruire nodi di informazione molto interessanti, di cui tutti siete a conoscenza.

Trasferire questa capacità ad una progettualità anche di tipo economico diventa una sfida irrinunciabile per la nostra stessa vita individuale e collettiva, che dia l’occasione di maturare una sintesi di sociale, economico e politico.

Un esempio "facile" e contraddittorio: le tecnologie legate al risparmio energetico sono finanziate dall’Unione Europea. Questi finanziamenti suggeriscono la creazione di imprese o coop che si impegnino nella riduzione dei consumi e delle emissioni, che propongano alla gente e alle imprese di investire nel risparmio energetico pagando con il risparmio della propria bolletta la garanzia di non dover pagare più un euro all’enel.

Non c’è problema di fattibilità di sorta, se non quello di riuscire effettivamente ad accedere a questi benedetti fondi europei, che sono spesso sequestrati ab initio dai dirigenti preposti alla spartizione e che sono effettivamente indispensabili per un progetto in grande scala.

Ma la domanda fondamentale resta: bisogna provarci?

Altro esempio: fare un giornale può essere un esperimento anche economicamente interessante?

Si può provare a pensare un economia "di sussistenza" fondata su alcuni servizi terziari, non indispensabili, ma su cui si dischiudono talvolta possibilità di costruire futuri individuali e collettivi?

In sostanza, vogliamo provare realmente e costruire un movimento di autorganizzazione collettiva di lotta al precariato, che punti a portare fuori le persone dal precariato?

Le nostre domande partono sicuramente da una carenza di analisi sulla questione, su cui studieremo a prescindere e seguendo le risposte che ci arriveranno (scrivete a gramigna@inventati.org) e che si accompagnano ad evidenti contraddizioni che a nostro parere non possono continuare ad essere taciute, che riguardano la nostra incapacità di essere davvero protagonisti del nostro futuro, inventori della nostra vita, interpreti attivi di un’alternativa di società e di socialità.

La risposta (che potrebbe anche essere: e provateci, non rompete) la chiediamo a tutti , perché sappiamo che il nostro è un comune sentire queste necessità, perché la nostra intenzione rimanga sempre quella di creare reti (non precarie, non instabili) di solidarietà che sostengano i dannati della terra, perché questa nostra intenzione non venga travolta dalla generale crisi politica, economica e sociale che sta affondando l’Italia e l’Europa nella xenofobia e nella paura.

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