Una vicenda piccola piccola. Riflessioni su corpi, potere, carcere e affettività.

La storia che raccontiamo è in se banale, di quelle che attirerebbero al più qualche piccola ilarità. Uno studente che si apparta in una momentanea intimità con la propria professoressa, il custode della casa dello studente che sgama i due nella camera invitandoli ad uscire.
 
La cosa non meriterebbe alcun tipo di attenzione, sarebbe cioè tra le cose ritenute normali dalla maggioranza delle persone. Il fatto è che lo studente è pure un detenuto e la camera in questione è collocata, insieme ad altre dieci, lungo il corridoio di una sezione del polo universitario di un carcere, il carcere don Bosco di Pisa.
 
La curiosa ed innocua situazione si verifica alla fine del mese scorso, mentre è in corso un esame e dunque la sala professori risulta occupata; i due, tra i quali si vocifera esistesse una qualche platonica affinità, si infilano furtivamente nella cella singola, dopo pochissimi minuti una guardia li individua invitandoli ad uscire. Tutto qui, e invece no: il detenuto dopo pochi giorni viene trasferito in tutta fretta presso un altro istituto, ed entrambe ricevono una grave denuncia per atti osceni in luogo pubblico e addirittura attentato alla sicurezza. Non un rapporto disciplinare, ma una denuncia che per uno già detenuto può comportare anni di galera in più tra condanna effettiva, esclusione dalle misure alternative ed anche dall’indulto da poco ricevuto. Ma non è finita.
 
Questa storia, fin qui confinata tra i muri del carcere e nelle preoccupazioni di detenuti, operatori volontari e docenti, è d’improvviso giunta agli onori della cronaca non solo locale, di essa si è interessato un ambiguo sindacatino autonomo di agenti penitenziari, con l’intervento del suo segretario nazionale che è pure un temuto e discusso ispettore del penitenziario pisano. Ne è nata una vera campagna politico mediatica volta a colpire il direttore dell’istituto e le attività formative e scolastiche svolte in questa struttura. In pratica, oltre ad intervenire sulla stampa locale con le prevedibili e tipiche speculazioni un po’ morbose, questo sindacato conf-ciisa ha inviato una denuncia al ministro della giustizia Alfano chiedendogli di intervenire, motivando anche richieste repressive come la pretesa di adottare contro i detenuti armi quali i manganelli elettrici e chiedendo il ripristino di sistemi punitivi spropositati come la condanna immediata per reato di oltraggio.
 
Con ciò si è pure palesato il clima di strisciante contrapposizione ed insofferenza di una parte minoritaria del personale in divisa rispetto a quelle attività formative che possono essere svolte dentro al carcere don Bosco e di cui il polo universitario è certamente il fiore all’occhiello. Da qui sono usciti decine di detenuti laureati, questo è uno dei pochi reparti in Italia dove si tentano condizioni di autogestione e di vita comune, senza che ciò abbia mai creato problemi effettivi né di sicurezza né di altra natura. Sarebbe tra l’altro da discutere la configurazione come "luogo pubblico" di ogni ambiente carcerario, se da un lato infatti nella visone panoptica del carcere (e della società) ogni luogo è sottoposto alla continua osservazione degli apparati di sicurezza e controllo, dall’altro pure il detenuto è una persona che necessita di una propria intimità; altrimenti si arriverebbe all’assurdo di considerare ogni momento dell’esistenza del condannato come aspetto pubblico, ed in tal caso ogni naturale pulsione fisiologica dello stesso potrebbe configurarsi come atto osceno o simile.
 
Il problema in Italia in termini formali non è stato ancora affrontato, mentre in diversi paesi europei il diritto all’affettività ed anche alla sessualità viene garantito e consentito. Negli ultimi tempi i detenuti del penitenziario pisano non nascondono la loro preoccupazione, sia per il clima generale nei confronti del carcere, con le recenti proposte di controriforma (vedi proposta Berselli con cui si farebbe piazza pulita di ogni riferimento al reinserimento dei detenuti nella vita civile, eliminando in pratica ogni misura alternativa), sia per gli attacchi provenienti da questo organismo sindacale e dal suo segretario, da molti ritenuto di orientamento d’estrema destra,  con atteggiamenti vessatori e provocatori verso i detenuti, rapporti disciplinari anche solo per una sigaretta e cose del genere su cui si sono registrati anche malumori da parte di altri settori della polizia penitenziaria ed iniziative anche disciplinari volte a limitare ogni abuso di potere.  
 
Ma al di la’ di questa piccola vicenda specifica, nell’attuale degenerazione securitaria e punitiva alcune categorie di detenuti si vedono oggi private di ogni intimità e possibilità di espressione, si pensi ai colloqui familiari col vetro o all’aberrante divieto di parola tra detenuti nei reparti 41 bis. In pratica non è solo la libertà del condannato ad essere impedita e limitata, è il corpo stesso della persona ad essere oggetto della pena, e con esso quello dei propri cari senza la minima considerazione neppure per l’affettività dei figli.
 
E’ ancora una volta il concetto di pena disumanizzante e afflittiva a farsi avanti e a contrastare soluzioni possibili e praticabili. Ed in questo l’attacco a quelle poche realtà detentive dove si sperimentano differenti forme deve essere considerato con l’attenzione che merita.
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