Caché: Il fascino indiscreto della borghesia

In una società come la nostra, in cui la paura e il sospetto nei confronti dello straniero sono sempre più diffusi, e in cui la sordità rispetto a qualsiasi tipo di istanza proveniente da chi è da sempre tagliato fuori dal benessere è la regola, il film di Haneke provoca un salutare senso di disagio, di colpa, ma lascia aperto, in un certo senso, anche qualche spiraglio.
All’interno di un articolo contenuto nel dossier che la rivista americana Screen ha dedicato a Caché, leggiamo che “The key question that confronts Haneke’s film is the following: what, exactly, is caché?”(1). Prendendo spunto da questa domanda, vorremmo porne una simile nella formulazione ma diversa nel contenuto: cos’è, esattamente, Caché? Non solo dunque cos’è il nascosto a cui il titolo del film si riferisce, ma che ruolo gioca questo nascosto (che scopriremo corrispondere fondamentalmente al passato coloniale della Francia) rispetto al film nel suo insieme e alle reazioni che intende provocare nello spettatore. Il film di Haneke pone infatti una serie di difficoltà sia a chi, dopo le prime immagini, si aspetta di vedere un thriller, sia a chi si aspetta un film dal chiaro ed esplicito contenuto politico. I riferimenti al passato coloniale, intorno ai quali l’intreccio narrativo si sviluppa, sono un mero pretesto per raccontare una storia che trova altrove i suoi punti di interesse? Oppure, al contrario, Haneke si è servito di un film di genere per esplorare il cuore di tenebra dell’occidente colonialista? Prima di tutto consideriamo brevemente la trama del film. George Laurent (Daniel Auteuil) è il conduttore di una trasmissione letteraria in tv, e vive una vita tranquilla e agiata in compagnia della moglie Anne (Juliette Binoche), che lavora in una casa editrice, e del figlio adolescente. Un giorno la tranquilla routine della famiglia viene improvvisamente interrotta: qualcuno inizia infatti a inviare ai Laurent disegni apparentemente infantili, strani e inquietanti, ma soprattutto video che riprendono la loro vita quotidiana. La presenza di un misterioso persecutore riporta alla mente di George uno spiacevole episodio della sua infanzia: l’allontanamento dalla sua casa di Majid, un bambino i cui genitori erano stati uccisi nel massacro degli algerini a Parigi del 17 ottobre 1961, e che la sua famiglia aveva adottato. George, che era stato il principale artefice dell’allontanamento del bambino, si convince immediatamente di aver trovato il responsabile della persecuzione che sta subendo. È davvero Majid (Maurice Bénichou) a inviare i video? O è piuttosto il figlio? O, come potrebbe suggerire il finale del film, i video provengono dalla stessa famiglia di George? E la persecuzione è davvero legata all’episodio dell’infanzia di George oppure ha altri motivi? Tutte queste domande, come il regista ha tenuto a puntualizzare, non sono di alcun interesse all’interno di questo film, che si gioca tutto su un altro livello, fatto di attese frustrate, di rimossi che non vengono svelati, di sottintesi che restano tali, di ambigui suggerimenti che permettono di leggerlo in molti modi differenti. È proprio questa ambiguità, questo rifiuto di canoni narrativi tipici di un genere, a fare di Caché un film dal forte contenuto politico. Il film rifiuta infatti di offrire un netto ed esplicito punto di vista, rifugge dall’offrire una semplice morale attraverso cui provare pietà e solidarietà per i vinti e astio e riprovazione nei confronti dei vincitori, preferendo fare appello alle capacità critiche dello spettatore, costretto a prendere posizione ma privo di elementi certi su cui basare la propria scelta. Con un procedimento tipico di tutto il suo cinema, Haneke – non a caso associato spesso alla Scuola di Francoforte, o al Teatro della Crudeltà di Artaud – affida la sua critica alla società occidentale e alla sua ricca e colta borghesia a scelte stilistiche più che contenutistiche, e confeziona un film che, rifiutando i meccanismi propri dell’industria culturale, si serve di strumenti più affilati e pungenti per comunicare il proprio messaggio allo spettatore. I lunghi piani sequenza, la scelta dell’Alta Definizione, persino i colori che spesso caratterizzano gli interni, contribuiscono a creare un’atmosfera fredda, bloccata, che inibisce la facile immedesimazione nei ruoli rappresentati nella vicenda. A ciò si aggiunge la caratterizzazione dei personaggi, che rende molto complesso quello che in genere è uno dei principali meccanismi sui quali si basa la fruizione di un film e la comprensione del suo messaggio: la divisione tra buoni e cattivi, tra i personaggi ai quali va la simpatia del regista e quelli ai quali va il suo astio, la sua condanna. Certo, Majid è una vittima, vive in un’anonima casa di periferia, mentre George è un uomo di successo, ricco e colto. E tuttavia a prima vista la vittima della persecuzione è George, che riceve i video e i disegni minacciosi. Certo, scopriamo ben presto che George si è macchiato di una colpa che non lo rende certo simpatico allo spettatore, ma è una colpa tale da giustificare la persecuzione nei suoi confronti? È una colpa tale da renderlo direttamente responsabile dell’eredità coloniale della Francia? Il gesto compiuto da George quando aveva meno di dieci anni è sufficiente a renderlo responsabile della vita di stenti e privazioni (che peraltro non ci viene mostrata, ma viene sottintesa) subita da Majid? No, eppure di qualcosa George è responsabile. Ma di cosa? È proprio uno degli spunti che il film offre per rispondere a questa domanda a costituire il suo aspetto più attuale e politico. George è infatti caratterizzato come l’esempio, tanto a livello individuale quanto a livello collettivo, dell’atteggiamento tipico dalle società occidentali per far fronte alle spinte provenienti dall’universo post-coloniale, una strategia non più basata sulla violenza diretta ed esplicita tipica del colonialismo, bensì su uno sfaccettato processo di esclusione. Ciò che caratterizza il personaggio di George è la sua totale chiusura nei confronti delle richieste di riconoscimento provenienti dall’Altro. La sua identità, il suo benessere personale, familiare, economico, sono basati sulla strenua difesa di un piccolo mondo chiuso, impermeabile all’esterno. Un mondo fatto di discussioni letterarie, cene raffinate e amici educati ed eleganti, in cui non c’è spazio per anonimi palazzoni di periferia e squallidi appartamenti che trasudano sacrificio e povertà. Una delle armi che permettono a George di difendersi dalla fastidiosa intrusione dell’altro, e in questo Haneke è particolarmente originale e impietoso, è la cultura. Come diversi critici hanno osservato, nel film è presente una chiara analogia tra l’interno dello studio televisivo di George, ricoperto di libri fasulli, le cui copertine sono interamente bianche, a simboleggiare un sapere non realmente fruito, e le pareti della sua casa, interamente ricoperte di libri, con la sola eccezione di uno spazio dedicato alla televisione, che si configura infatti, grazie ai video inviati dallo sconosciuto, come la finestra attraverso la quale il "fuori" riesce a penetrare nella vita di George e della sua famiglia. I video costituiscono l’elemento che smaschera il processo di esclusione su cui il protagonista, e con lui la società occidentale, difende i propri privilegi e le proprie conquiste: George dovrà abbandonare la propria casa nel centro di Parigi e avventurarsi nella Banlieue, dovrà difendersi dall’intrusione del figlio di Majid nell’elegante palazzo in cui ha sede il suo ufficio, e lo farà con arroganza e spregiudicatezza, ripetendosi continuamente, quasi per convincersene lui stesso, che non ha alcun senso di colpa. L’arroganza che lo caratterizza, soprattutto nei suoi dialoghi con Majid, ha il sapore di una strategia di difesa basata sull’attacco, sul perseguitato che si fa persecutore in base alla ferma convinzione di essere in diritto di farlo. L’aggressività di George trova origine, nonchè giustificazione agli occhi del protagonista, nel suo sentirsi una vittima innocente, nel suo sentirsi interamente dalla parte della ragione. In una società come la nostra, in cui la paura e il sospetto nei confronti dello straniero sono sempre più diffusi, e in cui la sordità rispetto a qualsiasi tipo di istanza proveniente da chi è da sempre tagliato fuori dal benessere è la regola, il film di Haneke provoca un salutare senso di disagio, di colpa, ma lascia aperto, in un certo senso, anche qualche spiraglio. Dopo essersi confrontato con il figlio di Majid, George, stremato da un aspro confronto, torna a casa, chiude le tende della propria camera, si spoglia completamente, prende due sonniferi e si infila sotto le coperte. Ma nemmeno questo estremo tentativo è sufficiente a metterlo al sicuro. La voce dell’alterità irrompe rumorosa, vanificando definitivamente ogni possibilità di trascurarne per sempre le richieste.
(1) R. Khanna, From Rue Morgue to Rue des Iris, in Screen XLVIII, 2, Summer 2007, pp. 237-243.
di Gabriele De Luca
[2.12.08]
Tratto da
Jura Gentium Cinema – http://www.jgcinema.org
 
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