Alcune riflessioni sulla legge sul testamento biologico.

Lo scorso giovedì il Senato ha approvato il ddl Calabrò contenente “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento”. I voti favorevoli sono stati 150 (Pdl, Lega e Udc), i contrari 123 (Pd, Idv) e 3 gli astenuti, con una piccola minoranza di senatori che ha votato difformemente dai partiti di appartenenza in nome della libertà di coscienza. Il testo, prima di entrare in vigore, dovrà affrontare il passaggio alla Camera il cui esito, naturalmente, è scontato.
 
Gli aspetti sicuramente più vistosi di questo provvedimento, il cui iter legislativo è stato accelerato dalla drammatica vicenda di Eluana Englaro, sono da un lato il fatto che si prevede che le dichiarazioni anticipate di trattamento (dat), ovvero i cosiddetti testamenti biologici, non saranno vincolanti per il medico, che potrà farne carta straccia. Dall’altro che si afferma che “l’alimentazione e l’idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita”, e come tali “non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento”.
 
E’ fin troppo facile evidenziare come un’assemblea formata da persone tanto risolute quanto incompetenti in materia, elette per il solo merito di essere state collocate nelle prime posizioni di una lista stilata dalla segreteria del loro partito, si sia arrogata il diritto di dirci come dobbiamo morire, dopo che di giorno in giorno si adopera a renderci quanto mai difficile e precaria la vita. E altrettanto facile sarebbe mostrare come tutto questo derivi in minima parte dalle convinzioni etico-religiose dei parlamentari e quasi del tutto dalla necessità di garantirsi un rapporto privilegiato con il Vaticano (se la coscienza fosse, per i parlamentari sedicenti cattolici, un vincolo così stringente, probabilmente certi provvedimenti come le impronte digitali ai bambini rom o l’obbligo di denuncia dei clandestini negli ospedali non verrebbero approvati).
 
Quello che invece mi preme sottolineare in questo momento è un principio folle ed autoritario, da vero e proprio stato etico, da regime orwelliano, cui questo testo conferirà valore di legge dello Stato.
Nell’articolo 1, comma 1, lettera a si afferma che la legge “riconosce e tutela la vita umana, quale diritto inviolabile ed indisponibile, garantito anche nella fase terminale dell’esistenza e nell’ipotesi in cui la persona non sia più in grado di intendere e di volere, fino alla morte accertata nei modi di legge”.
 
Ammettiamo per un attimo, cosa del tutto falsa, che si possano affermare l’inviolabilità e l’indisponibilità della vita umana in base a principi di natura laica, condivisibili da tutti e non smentibili. Dimentichiamoci anche che l’unico principio ragionevole, in quanto non oppressivo, su cui si possa impostare una convivenza civile all’interno di una comunità è che la vita sia nella disponibilità della persona stessa. Ebbene, questa legge viola in modo evidente i principi che essa stessa afferma.
 
Perché è un dato di fatto che, in base a questa legge, la vita cessa di essere disponibile alla persona solamente per il fatto che essa viene consegnata ad altre due entità: lo Stato e la Tecnica. Perché se si viene tenuti in vita per legge da un sondino naso-gastrico attraverso il quale non si ingeriscono solo sostanze nutritive, ma ad esempio gli antibiotici senza i quali in breve tempo le infezioni avrebbero ragione di un organismo che ormai la natura vorrebbe morto, significa che la vita biologica della persona non coincide più con quella del suo organismo, ma viene prolungata oltre, verso le frontiere aperte, di volta in volta, dalla tecnica. Significa che lo Stato, pur non riconoscendo la dignità della vita umana “dal concepimento alla morte naturale”, come piace tanto ai cattolici, visto che ad esempio discrimina di fatto i clandestini nell’accesso alle cure, si impossessa attraverso la Tecnica medica, di cui è titolare, della fase finale della vita di una persona, riservandosi di protrarla a suo piacimento tra sondini, piaghe da decubito e crisi respiratorie.
 
Del resto non stupisce vedere che il potere ambisca ad estendere la propria sovranità sulla vita delle persone anche oltre la fine della vita stessa, dando ulteriore compimento ai dispositivi di controllo ed oppressione che ci accompagnano fin dalla nascita. Ciò che stupisce è che questo venga fatto in nome e per conto di una autorità religiosa che sembra non accorgersi che solo se la vita resta nella disponibilità della persona, essa avrà il diritto di affidarla alla divina provvidenza o a qualunque altro principio religioso o laico essa voglia.
 
Mentre se la vita diventa disponibilità della Tecnica e dello Stato, insieme con la libertà personale conosceranno a poco a poco la propria fine anche quelle forme di vita sociale pre-statali quali, ad esempio, la famiglia, di cui i cattolici si professano strenui difensori.
Forse il vero errore del legislatore, su un tema come questo, sta
proprio nel legiferare in modo così prescrittivo, qualunque sia il
contenuto della legge.
 
Per migliaia di anni, infatti, la fine della vita umana è stata regolata all’interno del rapporto tra la persona, il suo nucleo familiare (da intendersi in senso lato, non ristretto alla recente concezione borghese del termine) e l’eventuale medico o guaritore. Lo Stato non può e non deve sostituirsi a questi meccanismi relazionali, e la Tecnica deve essere trattenuta al suo compito: offrire percorsi alternativi al destino naturale. Percorsi sui quali ci si deve poter incamminare solo in seguito ad una libera scelta, frutto di un’adeguata informazione.
Panurge.
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