scandita da una serie di cerimoniali pubblici, tanto dovuti, quanto formali,
per commemorare le vittime di quella che è passata alla storia come una della
più grandi tragedie italiane del mare: il rogo del traghetto Moby Prince, dove
persero la vita 140 persone.
di ricordare alla cittadinanza che quella del 10 aprile è una data importante
da ricordare e che ognuno dovrebbe sentire come proprio il senso di ingiustizia
che la vicenda processuale, oltre all’immenso dolore dei familiari delle
vittime, porta con se. Come in ogni Strage che si rispetti, soprattutto in
Italia, la perdita di amici, familiari, o semplici conoscenti, non è mai
“consolata” dall’individuazione dei responsabili. E quella del Moby Prince non
fa eccezione: l’abbiamo scritto più volte. Non c’è mai un colpevole, tutto
sembra trovare senso nella fatalità. Le cose accadono per caso; e quando il
caso proprio non basta, la responsabilità si cerca nell’errore umano. Che
guarda caso è sempre l’errore di un lavoratore, di uno di quelli che formano
l’ultima ruota del carro.
Quest’anno, il caso (questa volta si, c’entra), ha voluto
che il 18° anniversario della tragedia del Moby Prince, coincida con la
giornata di lutto nazionale per le vittime del terremoto che nei giorni scorsi
ha sconvolto L’Aquila ed altri centri limitrofi dell’Abruzzo. Al momento in cui
sto scrivendo, il bilancio è di 281 morti. La rabbia, la disperazione, il lutto
di chi è stato colpito, nelle cose, come negli affetti, da giorni, insieme ad
un’insostenibile livello di inevitabile retorica, transita di casa in casa,
attraverso le immagini della Tv come del Web. «Nessuno è senza colpa», è il
monito lanciato oggi dal Presidente Napolitano. Il fatto è clamoroso, e
clamoroso dunque deve essere anche il commento istituzionale. Ma non è la prima
volta che le istituzioni, alte cariche dello stato comprese, all’indomani di
una tragedia di questa portata (a nessuno sfugge che 100 morti in un giorno
facciano molta più impressione di 100 morti in 100 giorni: anche se a morire
alla fine sono comunque in 100), si lanciano in promesse e proclami, per
accertare, qualora se ne riscontri l’ipotesi, le responsabilità, e dunque
garantire verità e giustizia: alle vittime, ai propri cari, e al paese intero,
che si deve sentire giustamente coinvolto.
Ma passata l’emergenza, passata la settimana di passione e
di dolore, tutto sembra tornare come prima. La tensione si allenta ed il grande
pubblico tende a dimenticare come sia andata a finire la storia: se poi le case
le hanno ricostruite, se poi hanno trovato i documenti del famoso Ospedale o
della Casa dello Studente, se poi è stato individuato chi ha fatto la cresta
sui capitolati d’appalto tagliando sulla qualità dei materiali da costruzione,
se poi è stato accertato che chi doveva controllare, ha chiuso un occhio in
cambio di mazzette… Così come la gente a Livorno e non solo, ha smesso di
chiedersi, quali e quante navi erano in rada quella tragica sera del 10 aprile
del 1991, del perché da terra non ci si accorse subito dell’incendio, del
perché i soccorsi furono così mal coordinati, del perché a bordo non
funzionavano bene le apparecchiature di sicurezza, se era vero o meno che
quella nave era potenzialmente pericolosa e che non avrebbe dovuto navigare, se
davvero chi doveva controllare le condizioni della nave non l’abbia invece
fatto.
Le solite domande insolute, le solite domande dimenticate.
Chiaro, ogni caso è sempre diverso l’uno dall’altro, ogni Strage, ogni tragedia
ha le sue specificità: un incidente non è un terremoto, così come un incendio
in una fonderia, non è un crollo di un palazzo, ed un aereo che esplode in
volo, non è una bomba che esplode in una stazione di treni. Ma è anche vero che
vicende apparentemente distanti le une alle altre, trovano nella categoria di
persone morte, una sorte di minimo comune denominatore. Sono tutti civili, sono
tutti innocenti. Sono quasi sempre tutti e tutte persone normali. E comunque
quasi mai responsabili (ad eccezion fatta probabilmente di molti dei morti
nelle cosiddette stragi del sabato sera) diretti della propria morte.
E senza voler fare una statistica precisa, ma piuttosto
sollevare una riflessione collettiva, molte di queste morti potevano essere
evitate. Già perché a scavare, in molti casi, la gente muore per inadempienze o
scelte altrui: ora un mancato controllo, ora una mancata verifica, ora un
lucido calcolo di un imprenditore che accetta il rischio di un incidente di
fronte all’ipotesi di una maggiore profitto: che mette in conto, oltre allo
sfruttamento, la stessa morte degli individui.
Fa poca differenza se l’imprenditore sia un costruttore,
un armatore di navi, o un padrone tedesco di un’acciaieria. La logica è sempre
la stessa: profitto a tutti i costi. Come? Esistono anche gli imprenditori con
il senso etico? Certo, chi lo nega. Ma una rondine non ha mai fatto primavera,
così come una bella giornata di sole non ha mai fatto una stagione.
Prima c’era la lotta di classe e c’erano le guerre civili
(e forse in molti luoghi, ci sono ancora): ora sembra che queste due tipologie
di conflitto siano state condensate e riunite in un conflitto tanto violento e
letale quanto negato e taciuto: una permanente guerra ai civili. Una guerra
silenziosa condotta contro cittadini e lavoratori, nel nome della ragion di
Stato e del profitto del Capitale. Parole vecchie? Forse. Ma se vi guardate
intorno, e vi guardate allo specchio, riscoprirete il loro carico di verità.
Per Senza Soste, Lucio Baoprati