Mai come oggi l’umanità si interroga su quali siano le strade percorribili, da un lato, per emanciparsi dai combustibili fossili e, più in generale, dalle fonti non rinnovabili, nel soddisfacimento dei propri fabbisogni energetici; dall’altro per ridurre drasticamente – e possibilmente eliminare – le emissioni di gas serra e di inquinanti nell’ambiente.
Non c’è dubbio che nel breve-medio periodo la risposta possa venire unicamente da una progressiva riduzione dei consumi attraverso il risparmio energetico in tutte le sue forme – dall’eliminazione degli sprechi al potenziamento del riciclo dei materiali, dall’assunzione di un’attitudine al consumo più responsabile all’adozione di un sistema economico che non insegua più la chimera della crescita indefinita, per finire naturalmente con un’evoluzione della tecnologia che punti ad ottenere le stesse prestazioni con minori consumi – nonché dalla graduale riconversione della produzione energetica alle tecnologie rinnovabili oggi disponibili (eolico, solare, biomasse, idroelettrico, geotermico etc.). Tuttavia è noto che tutt’oggi non si ritiene possibile sostenere un sistema produttivo e industriale in continua espansione con un sistema di produzione energetica che possa prescindere totalmente dalle cosiddette fonti non rinnovabili e inquinanti (combustibili fossili, nucleare convenzionale etc.).
Di fronte allo spettro dell’esaurimento delle risorse, ormai sempre meno remoto, spesso ci consoliamo dicendo che l’uomo si inventerà qualcosa per risolvere il problema, confidando nel fatto che la storia pare mostrare che alla fine l’umanità ha sempre saputo cavarsela anche nei momenti di maggiore devastazione, dalle grandi epidemie alle guerre mondiali e via dicendo, ricostituendo di volta in volta livelli di benessere superiori a prima. Quello dell’esaurimento delle risorse è un problema inedito per l’umanità, e le soluzioni che di volta in volta vengono evocate sono possibilità, non certezze. Tralasciando le più fantascientifiche o stupide – come l’idea di emigrare su altri pianeti – una delle possibilità su cui si confida molto è quella di produrre energia attraverso una tecnica che porta l’oscuro nome di fusione termonucleare controllata.
REAZIONI CHIMICHE vs REAZIONI NUCLEARI. In natura si distinguono 4 tipi di interazioni, che danno luogo a tutte le forze conosciute. In ordine crescente di intensità esse sono: gravitazionale, elettromagnetica, debole, forte. Ciò che caratterizza le interazioni, oltre alla loro intensità, è la distanza caratteristica sulla quale agiscono, il cosiddetto raggio (range) di interazione. Le prime due interazioni, le più “deboli”, sono le uniche di cui ci accorgiamo, dal momento che hanno un raggio di interazione infinito e possono, dunque, dar luogo ai fenomeni macroscopici di cui facciamo quotidianamente esperienza diretta. Le seconde due, più intense, hanno raggi di interazione dell’ordine del milionesimo di miliardesimo di metro – la dimensione caratteristica del nucleo di un atomo – e danno perciò tipicamente luogo a fenomeni su scala microscopica, di cui i nostri sensi non possono accorgersi.
Un atomo, com’è noto, è formato da un nucleo – costituito da particelle di carica elettrica positiva, i protoni, e particelle neutre, i neutroni – attorno al quale “orbitano” gli elettroni, che hanno carica negativa. L’interazione elettromagnetica fa’ sì che tra le particelle cariche si instaurino forze che tendono a far respingere particelle di ugual carica, e attrarre particelle di carica opposta. E’ quindi ovvio che, mentre gli elettroni possono essere legati ai nuclei – a formare l’atomo – attraverso forze elettromagnetiche attrattive tra cariche opposte, così non è per i protoni. Dal momento che le particelle della stessa carica tenderebbero a respingersi , il fatto che i protoni risultino legati nall’interno del nucleo suggerisce che esista una interazione molto più intensa di quella elettromagnetica, attrattiva, che agisce sulla scala delle dimensioni del nucleo, e che lo tiene legato: l’interazione forte.
Sappiamo inoltre che gli atomi di elementi uguali o diversi possono formare tra di loro legami che portano alla costituzione di “aggregati” di atomi, detti molecole. La costituzione di questi legami avviene attraverso il “mescolamento” degli orbitali elettronici (gli elettroni) dei singoli atomi, e tralasciando i dettagli, si può arrivare a concludere che le forze che tengono insieme gli atomi nelle molecole (e le molecole nelle strutture complesse che conosciamo, come ad esempio i corpi solidi) sono tutte di natura elettromagnetica.
La creazione o la rottura di questi legami è ciò che chiamiamo comunemente reazioni chimiche. Esse non modificano la struttura dei nuclei atomici, ma solo quella delle nuvole di elettroni che li circondano. Ora, esistono due tipi di reazioni: quelle che danno luogo a uno stato fisico “meno stabile” (dal punto di vista energetico) di quello di partenza, che per avvenire richiedono che si fornisca energia al sistema – dette “endoenergetiche” – e quelle che danno luogo ad uno stato più stabile – esoenergetiche o spontanee – che mentre avvengono liberano energia, sotto forma di calore. Quello che accade nelle reazioni endoenergetiche è che l’energia che forniamo viene usata dal sistema per creare o rompere legami chimici che spontaneamente non potrebbero crearsi o rompersi, mentre viceversa nelle reazioni esoenergetiche – dette anche spontanee, anche se spesso hanno bisogno di un innesco, come ad esempio quando accendiamo un fornello a metano con un fiammifero – i legami si rompono liberando l’energia che vi era immagazzinata, oppure si creano dando luogo ad un sistema comunque meno energetico rispetto a quello di partenza, liberando così energia.
Se diamo uno sguardo di insieme al processo globale che ci porta a produrre energia attraverso la combustione (che è una reazione chimica!) degli idrocarburi, scopriamo che quell’energia proviene, in realtà, dal sole. Infatti l’energia prodotta sul sole viaggia, sotto forma di luce, attraverso lo spazio e investe la superficie terrestre. Le piante catturano questa energia attraverso la clorofilla delle foglie e, con un processo chimico noto come fotosintesi, la immagazzinano nei legami chimici di molecole, note come zuccheri, ottenute a partire da acqua e anidride carbonica. Dopo milioni di anni e complicati processi geologici ritroviamo quella stessa energia, proveniente dal sole, nei giacimenti di petrolio che stiamo tanto sconsideratamente sfruttando.
Ma come si produce tale energia “alla fonte”, ovvero sul sole? Attraverso reazioni nucleari, più precisamente reazioni di fusione. Come si può capire da quanto detto fino a ora, queste reazioni coinvolgeranno i nuclei degli atomi, e dunque quella misteriosa e potentissima interazione che, non a caso, è stata battezzata dai fisici come interazione forte. Per rendere l’idea della differente scala di energia coinvolta nei processi nucleari rispetto a quelli chimici, si pensi che una singola bomba nucleare è in grado di liberare l’energia di alcune decine di milioni di tonnellate di tritolo.
FUSIONE vs FISSIONE. Le centrali nucleari funzionano oggigiorno grazie ai processi di cosiddetta fissione nucleare. Per capire la differenza tra fissione e fusione facciamo un parallelo con le reazioni chimiche sopra descritte. In quel caso avevamo detto che se la reazione procedeva da uno stato meno stabile a uno più stabile essa poteva avvenire “spontaneamente” liberando energia. Il discorso è analogo nel caso delle reazioni nucleari.
Ciò che distingue i vari elementi chimici della tavola periodica è il numero di protoni contenuti nel loro nucleo. Ad un nucleo costituito da un singolo protone corrisponde l’idrogeno, per due protoni si ha l’elio, e così via. L’elemento più stabile di tutti è il ferro, che ha 26 protoni. Ad un livello molto intuitivo possiamo quindi capire che se fondiamo due nuclei di idrogeno a formarne uno di elio, procediamo “in direzione del ferro”, ovvero verso uno stato più stabile, e dunque liberiamo – ovvero potenzialmente guadagniamo – energia: reazioni che fondono nuclei con pochi protoni, detti “leggeri”, a formare nuclei via via più pesanti liberando energia, sono dette reazioni di fusione, e sono quelle che hanno luogo sulle stelle, e sul sole in particolare. È ovvio che una volta arrivati al ferro il processo si interrompe, perché non c’è uno stato più stabile verso il quale procedere. Ammesso che ci si riesca, per aggiungere o sottrarre protoni al ferro si dovrebbe per forza “sprecare” energia e non si potrebbe, in nessun caso, guadagnarla. Sottolineiamo il fatto che i processi di fusione non danno luogo a scorie radioattive.
Ma esistono anche nuclei molto più pesanti del ferro, e ci aspettiamo che rompendo questi nuclei a formare nuclei più leggeri – ovvero ancora una volta procedendo verso il ferro, anche se dalla parte opposta della sequenza – si libererà energia. Questi processi vengono chiamati processi di fissione nucleare, e sono quelli che alimentano le centrali nucleari. Gli svantaggi dei processi di fissione, che si possono realizzare in pratica, sono legati al fatto che per guadagnarci qualcosa (e per riuscire a rompere i nuclei) si deve partire da nuclei molto pesanti, ovvero molto instabili (come l’uranio 235, che ha 235 protoni). Al di là del fatto che l’uranio non è un elemento comune in natura – e non è difficile da credere, dato che è tanto instabile – e che questo rende la tecnologia della fissione una tecnologia non rinnovabile (i giacimenti di uranio si esauriranno più o meno nello stesso periodo di quelli di petrolio), il problema sta nel fatto che i prodotti della fissione dell’uranio – le “scorie” – sono elementi a loro volta instabili, soggetti a decadimenti radioattivi nocivi per l’ambiente e per l’uomo, che durano migliaia o milioni di anni.
LA FUSIONE TERMONUCLEARE. Abbiamo detto che l’energia delle stelle è fornita dalle reazioni di fusione nucleare. La più semplice di queste reazioni, e di gran lunga la più importante, è quella per cui due nuclei di idrogeno vanno a formarne uno di elio, liberando energia e neutroni. È fatta, si potrebbe pensare. Basterà mescolare nuclei di idrogeno e aspettare un po’… Purtroppo le cose non stanno così, e il problema sta nel fatto che la reazione deve essere innescata (un po’ come nel caso del fiammifero per il fornello). Infatti, come detto, i protoni si respingono per via dell’interazione elettromagnetica, e iniziano ad attrarsi e a legarsi per mezzo dell’interazione forte soltanto una volta che sono stati portati a una distanza dell’ordine di un milionesimo di miliardesimo di metro – il raggio dell’interazione forte! – ma, per fare questo, si deve vincere la repulsione elettromagnetica dovuta al fatto che i protoni hanno tutti la stessa carica. E non è proprio come accendere un fiammifero.
Sulle stelle le reazioni avvengono per via dell’immane massa delle stelle stesse, che fornisce una forza gravitazionale (sempre attrattiva) che farebbe collassare la materia su sé stessa se non fosse che i protoni, una volta compressi sulle distanze opportune, iniziano a dar luogo alle reazioni di fusione (che avvengono nel centro della stella, dove la temperatura è più alta) che forniscono l’energia (e la pressione) necessaria a far sì che la stella non collassi in una nana bianca o in un buco nero. Diciamo per inciso che questi processi di fusione che avvengono sulle stelle sono i responsabili della cosiddetta nucleosintesi – ovvero della formazione dei nuclei degli elementi pesanti che troviamo in natura – che la stella può rilasciare nello spazio durante processi di esplosione catastrofica noti come supernovae.
Quello che gli scienziati si propongono di fare attraverso gli esperimenti di fusione termonucleare controllata è proprio innescare queste reazioni, avvicinando i protoni alla distanza opportuna, ma per farlo non possono fare affidamento sulla gravità, visto che le quantità di materia in gioco sono, in questo caso, irrisorie. Per costruire le nostre stelle in miniatura dovranno essere percorse altre strade.
Il primo tentativo di realizzare in laboratorio la fusione termonucleare controllata risale al 1952: il progetto Sherwood.
Attualmente sono state ideate due tecniche che seguono due logiche completamente diverse, e cercheremo di darne un’idea nei prossimi due paragrafi. Tanto per sgombrare il campo da ogni equivoco, comunque, diciamo subito che la fusione nucleare si sa fare. Il problema è che, allo stato attuale delle tecnologie, è più l’energia che si spreca per realizzarla di quanta se ne riesce a ricavare.
Il primo tentativo di realizzare in laboratorio la fusione termonucleare controllata risale al 1952: il progetto Sherwood.
Attualmente sono state ideate due tecniche che seguono due logiche completamente diverse, e cercheremo di darne un’idea nei prossimi due paragrafi. Tanto per sgombrare il campo da ogni equivoco, comunque, diciamo subito che la fusione nucleare si sa fare. Il problema è che, allo stato attuale delle tecnologie, è più l’energia che si spreca per realizzarla di quanta se ne riesce a ricavare.
TECNICHE PER LA FUSIONE TERMONUCLEARE CONTROLLATA. Vediamo innanzitutto gli aspetti salienti che accomunano le due strade cui abbiamo accennato poc’anzi. Per prima cosa, esse si basano sulla stessa reazione di fusione, ovvero quella che fonde i nuclei di due diversi isotopi dell’idrogeno (il deuterio e il trizio, che hanno entrambi un protone ma rispettivamente uno e due neutroni) a dare un nucleo di elio (detto anche particella alfa) e un neutrone, oltreché ovviamente l’energia che tanto bramiamo. La prima cosa da notare è che il “propellente” di queste macchine è l’idrogeno, l’elemento di gran lunga più comune e che costituisce più del 70% della materia conosciuta nel nostro Universo, e questo ci fa capire che questa tecnologia può a buon diritto essere definita rinnovabile! Se è vero che il trizio è decisamente più raro del deuterio, è vero anche che, convogliando parte dei neutroni liberati dalla reazione sul combustibile stesso, essi si uniscono al deuterio a dare trizio, e per così dire fertilizzano il nostro carburante.
Inoltre, ciò che accomuna le due tecniche è il fatto che il combustibile deve essere portato oltre una certa temperatura (da cui la denominazione “termonucleare”), detta temperatura critica, che è la condizione fisica corrispondente al fatto che vogliamo che i nuclei abbiano velocità tali da potersi avvicinare tra loro al di sotto del raggio dell’interazione forte per fondersi (la temperatura di un sistema altro non è che una misura della velocità media delle particelle che lo costituiscono, ovvero, in termini tecnici, della loro energia cinetica media). Con un’immagine naif possiamo pensare i nuclei come palline che urtano, e associare a ciascun urto una reazione di fusione. Noi vogliamo che le palline siano talmente veloci da arrivare a “toccarsi” nonostante la loro tendenza a respingersi per via della repulsione elettrica, perché in questo modo c’è una certa probabilità che abbiano luogo le reazioni di fusione. La fusione corrisponde alla creazione di una pallina più grande, il nucleo di elio, e una più piccola, il neutrone, che tenderanno ad uscire portandosi via energia e raffreddando quindi il sistema, ovvero portandolo al di sotto della temperatura critica e interrompendo così la reazione.
Uno dei problemi fondamentali sta nella temperatura critica della fusione, pari a oltre 360 milioni di gradi. A quelle temperature la materia si trova in uno stato di aggregazione noto con il nome di plasma, nel quale l’energia cinetica delle particelle (la loro velocità media) è molto maggiore dell’energia potenziale del sistema (l’energia associata alle interazioni tra le particelle), condizione questa che corrisponde proprio alla nostra richiesta che le particelle siano abbastanza veloci da poter urtare.
I plasmi sono quanto di più instabile ci sia in natura e sono assolutamente refrattari all’idea di restare confinati in un volume, ma a noi serve che il combustibile nel quale avvengono le reazioni non si “sparpagli” prima che siano avvenute abbastanza reazioni di fusione da compensare – con gli interessi! – tutta l’energia che abbiamo buttato nel sistema per portarlo alla temperatura critica. Il confinamento del plasma alle opportune condizioni di temperatura e densità per il tempo necessario ad avere guadagno energetico è il grande problema tecnologico che ci troviamo ad affrontare se vogliamo costruire centrali a fusione. Qui si separano le strade delle due tecniche.
CONFINAMENTO MAGNETICO. L’idea è quella di costringere il plasma, per mezzo di forti campi magnetici, a ruotare su un percorso a ciambella (un fisico direbbe su un "toroide di rotazione"): questa geometria di confinamento porta il nome di tokamak. I campi magnetici vengono anche usati per riconvogliare nel tokamak le particelle che vengono prodotte dalla reazione (nuclei di elio e neutroni) in modo che la temperatura si mantenga al di sopra del valore critico per il tempo necessario e che i neutroni possano fertilizzare il combustibile. In questo caso la densità del plasma non può essere molto grande, e questo significa che gli urti tra le particelle – ovvero le reazioni – non sono frequentissime.
Per averne un numero sufficiente da ottenere guadagno si deve riuscire a garantire un confinamento su un tempo che, sulla scala di questi problemi, è molto grande: circa un secondo. Il problema è che si riesce ad avere il tempo voluto, ma non alla temperatura necessaria, e viceversa. Dunque, se si porta il sistema oltre la temperatura critica, ovvero si fa la fusione termonucleare, essa dura troppo poco per ricompensarci del nostro sforzo, e alla fine il bilancio tra energia sprecata ed energia guadagnata è in drammatico passivo!
“CONFINAMENTO” INERZIALE. Il motivo per cui la parola confinamento, in questo caso, è virgolettata sta nel fatto che la scelta stavolta è quella di non confinare affatto il plasma, ovvero di lasciare che la materia si confini da sola per effetto della propria inerzia, cioè della resistenza che qualunque corpo dotato di massa oppone a qualunque tentativo di accelerarlo tramite una forza.
Immaginate una sferetta di vetro di alcuni millimetri di diametro che contenga il deuterio e il trizio. Questa palla viene lasciata cadere e, nel frattempo, colpita da tutte le direzioni, e nel modo più uniforme possibile, dalla radiazione di laser di grandissima potenza. Gli impulsi laser di grande potenza sono capaci di depositare sulla sferetta una grande quantità di energia in una piccolissima frazione di secondo (per chi abbia un po’ di familiarità coi numeri si parla di impulsi laser che arrivano attorno ai 10 alla 18 watt!). Questo scalda istantaneamente la superficie della sferetta trasformandola in plasma, dopo di che si ha un’esplosione che genera un’onda d’urto che sarà diretta, per il principio di azione e reazione, sia verso l’esterno della superficie che verso l’interno.
L’onda d’urto diretta verso l’interno comprimerà il deuterio ed il trizio portandoli a condizioni di plasma a densità, pressione e temperatura altissime. Il plasma in queste condizioni sarà particolarmente instabile ed esploderà su tempi caratteristici che vengono dettati sostanzialmente dall’inerzia del sistema (i.e.: dall’idrodinamica). Quello che conta è che a quelle enormi densità gli urti tra le particelle – e dunque le fusioni – sono molto più frequenti che nel caso del confinamento magnetico, in cui la densità era bassa, per il semplice motivo che ci sono molte più particelle in meno spazio. Questo significa che può bastare un confinamento su tempi molto più bassi, quelli che il plasma “decide da solo” in base alle proprie caratteristiche dinamiche, per avere un numero sufficiente di reazioni da ricompensarci con l’energia che desideriamo.
Il limite che si incontra, e che al momento non si riesce a raggiungere per ragioni tecnologiche, sta nelle condizioni che devono essere ottenute affinché il processo risulti energeticamente vantaggioso. Senza entrare nei dettagli, le formule mostrano che per aumentare l’efficienza, e sperare di avere un guadagno, si può giocare sostanzialmente su due parametri: la densità e la quantità di combustibile che bruciamo.
La quantità di combustibile che bruciamo non può superare, allo stato attuale della tecnologia, i 10 milligrammi, per la semplice ragione che, se ci pensate, quello che stiamo cercando di fare è realizzare e far esplodere una piccola bomba all’idrogeno. Il punto è che, come dice il nome di questo processo, noi vogliamo che la fusione termonucleare sia controllata, ovvero vogliamo essere in grado di tenere sotto controllo e di sfruttare l’energia che produciamo con le reazioni di fusione. Allo stato attuale delle cose, bruciare più di 10 milligrammi di combustibile significa sprigionare una quantità di energia che nessun impianto costruibile con le tecnologie a disposizione potrebbe contenere.
Per quel che riguarda l’altro parametro risulta che, fissata a 10 milligrammi la quantità di combustibile da bruciare, la densità da raggiungere sarebbe circa 1500 volte maggiore di quella di un qualunque corpo solido. La difficoltà nel raggiungere densità così elevate risiede nel fatto che il plasma diventa via via più instabile al crescere della densità e la sferetta tende a sfasciarsi prima di aver raggiunto il valore desiderato. Inoltre è richiesto che l’irraggiamento con i laser sia perfettamente uniforme, perché, se fosse un po’ più intenso in alcuni punti e meno in altri, l’effetto sarebbe quello che si ha quando si comprime un palloncino con le dita: il plasma tenderebbe a scappare nelle direzioni in cui è meno compresso. Questo introduce ulteriori problemi in cui non possiamo addentrarci.
Alla fine di tutto questo discorso, il bilancio che si può trarre è che questa straordinaria tecnologia è ancora ben lontana da dare i risultati sperati in termini di produzione di energia, e non sappiamo se potrà essere disponibile quando sarà necessario, ovvero quando le risorse di combustibili fossili staranno per esaurirsi. Tuttavia, ciò che può far ben sperare è che le ragioni per le quali non si riesce ad ottenere il risultato voluto – produrre energia su larga scala da una fonte rinnovabile con impatto ambientale nullo – sono tutte imputabili a limiti tecnologici, e non fisici, almeno per quanto ne sappiamo finora. E i limiti tecnologici, a differenza di quelli fisici, possono forse essere superati.
Concludiamo dicendo che, come sempre avviene nel corso di queste immani imprese di ricerca scientifica, gli scienziati hanno ottenuto, spesso incidentalmente, risultati di più immediata utilità. Uno di questi consiste nel fatto che, nei tentativi di comprimere il plasma con gli impulsi laser, gli scienziati erano disturbati, come abbiamo detto, dalle instabilità, che consistono, in sostanza, nel fatto che una frazione di particelle schizza via dal plasma a grandi velocità sottraendo energia al sistema e impedendo di raggiungere le condizioni di fusione desiderate. Quello che per la fusione si dimostra una gran rottura si rivela invece un eccellente metodo per accelerare particelle, ovvero produrre fasci di particelle veloci di ottima qualità che potranno rivoluzionare, nel giro di qualche anno, molte tecniche di fisica medica, quali la radioterapia dei tumori.
La Redazione