Pubblichiamo il racconto di Gianluca Fazio, collega delle vittime della Saras, giovane di 31 anni che ha visto morire tre operai, suoi compagni di "squadra", martedi scorso. Carlo Bonini ha raccolto le sue parole, pubblicate poi su Repubblica.
CAGLIARI – Seduto su un letto del reparto di medicina generale dell’ospedale civile San Giovanni di Dio, Gianluca Fazio è una sagoma immobile con gli occhi pieni di sangue, fissi nel vuoto. Magro, i capelli corvini, indossa ancora i pantaloni blu e le scarpe da lavoro, una canottiera nera. Gianluca ha visto morire i suoi compagni di "squadra" Pierluigi Solinas, Bruno Muntoni, Daniele Melis. A trentuno anni quanti ne ha, Gianluca è un sopravvissuto. Agganciato al carrello della flebo, scuote la testa. Dice di non voler parlare. Indica un uomo anziano seduto di fronte a lui.
Si chiama Salvatore Fazio. È suo zio. Siciliano come lui. È lui che ha fondato la "Comesa", cooperativa sociale di 160 dipendenti, che nella raffineria lavorava a contratto per la manutenzione degli impianti. È lui che, due mesi fa, ha chiamato Gianluca a lavorare per 900 euro al mese a Sarroch. Perché a Siracusa, dove ha lasciato moglie e due figli piccoli, lavoro per Gianluca non ce n’era. È a lui che Gianluca ha raccontato. Ed è lui, dunque, Salvatore, che torna a raccontare cosa è successo in quella cisterna.
Il "Mild Hidro cracking" – questo il nome della bestia che si è portato vie tre vite umane – era fermo da tre settimane. Una cisterna interrata da 100 mila litri, dove il gasolio viene raffinato e diventa "blu diesel". Larga tre metri, alta un metro e mezzo. Gianluca, Pierluigi, Bruno e Daniele dovevano ripulirne il fondo e le pareti. Un’operazione di routine, per la quale non si deve e non si può morire.
A comandare la squadra, Gianni Melis. "Giannino", come lo chiamano in una raffineria dove è cresciuto.
"Infilarsi in una cisterna – spiega Salvatore Fazio – è come entrare in un sommergibile". L’apertura è laterale. Ci si sdraia nel boccaporto per poi spingere in avanti con le gambe, fino a farle pencolare nel vuoto del serbatoio. Quindi, con un colpo delle braccia si lascia scivolare tronco e testa nel budello.
Passata le 13.30, Pierluigi Solinas è all’ingresso del boccaporto, con le gambe in avanti e le braccia pronte a dare la spinta. Accanto a lui, sui ponteggi che avvolgono il serbatoio e gli danno accesso, Daniele Melis. Gianluca Fazio e Bruno Muntoni sono distanti.
"Gianluca e Bruno – racconta Salvatore – ad un certo punto sentono Daniele Melis urlare. E credono che Solinas sia caduto dai ponteggi". Lo cercano sulla terra. Lui è già precipitato nel pozzo.
I gas tossici uccidono Solinas e uccidono subito dopo Melis. Che si è infilato nel budello pensando che il compagno che ha visto sparire abbia avuto un malore. Gianluca Fazio ricorda di essersi precipitato allora insieme a Muntoni, il più anziano della squadra, sopra il ponteggio. E ricorda anche dell’altro. Che lo zio Salvatore racconta così. "Muntoni si mette una mascherina", "una mascherina di quelle antipolvere", poi prova ad affacciarsi nel budello. "Mio nipote prova a trattenerlo, ma gli scivola la presa sulla tuta da lavoro".
Muntoni precipita nella cisterna. Gianluca sviene e verrà ritrovato sui ponteggi. Ma non subito.
L’allarme, per quel che se ne sa, non suona subito. Così come, per quel che se ne sa, mentre la cisterna divora tre vite umane, il caposquadra, Gianni Melis, è lontano. E’ andato a far firmare l’accesso al serbatoio dai responsabili della sicurezza della raffineria. A mettere un sigla su un pezzo di carta che certifichi che in quel serbatoio sono state effettuate le "prove ambientali" e la vita umana non è a rischio. Insomma, che quel pozzo nero sia stato bonificato e l’ossigeno sia in porzioni sufficienti.
Del caposquadra – dice Salvatore Fazio – il nipote ricorderebbe la voce quando ha ripreso i sensi sul ponteggio. "Non dovevano avvicinarsi", avrebbe detto. "Gli avevo detto di non avvicinarsi".
È un fatto che i quattro operai sembra non avessero indosso i segnalatori che, come un canarino da miniera, indicano la mancanza di ossigeno. O se li avevano erano spenti. È un fatto che la mascherina afferrata da Muntoni prima di morire fosse di quelle antipolvere, come quelle che usano i muratori e non chi si cala in pozzi saturi di gas venefici. "È un fatto – scandisce William Schirru, delegato di fabbrica della Cgil – che non si può morire così. Che la parola fatalità, in questa storia, va cancellata. Che le procedure, se esistono, vanno seguite. E qui, le procedure, non sono state seguite".
Gianluca torna a fissare lo zio. Non voleva neppure rimanere in ospedale, dice lui. Ma anche lo zio ora parla mal volentieri. Gli chiedi della "Comesa", dei subappalti per la manutenzione e si fa silenzioso. Dice che in trent’anni di lavoro "mai era successa una cosa simile". Che quella raffineria la conoscono come e meglio di casa loro. Né è di aiuto, almeno stasera, Mario Salonis, delegato di fabbrica della Comesa. Lo deve interrogare il magistrato. E fino ad allora – dice – non può aprire bocca.
I cancelli della Saras, al contrario, sono un coro di voci operaie. La mobilitazione è cominciata con il buio. A mezzanotte arriveranno le telecamere della Rai. E questa mattina alle 7, la raffineria si fermerà per otto ore.
Enzo Costa, segretario della Cgil, dice: "Questa volta basta, ma basta davvero. Non è possibile continuare a raccogliere ogni anno morti nelle cisterne" (12 soltanto nell’ultimo anno, secondo i dati diffusi dall’Inail). "Il Paese si deve fermare. Deve chiedersi che cosa sta accadendo. Come si possa ancora morire per 900 euro al mese". E anche lui, come Schirru, pronuncia quella parola – "fatalità" – come un insulto alla coscienza e all’intelligenza di chi, ogni giorno, varca i cancelli della raffineria. "Tutto, potranno dire tutto. La magistratura accerterà le responsabilità. Ma non ci vengano a parlare di fatalità. Non oggi, non in questa raffineria che di morti già ne ha avuti".
Già, perché un fatto è certo. Ieri, nel "Mild Hidro cracking" della raffineria Saras, nessuno aveva ancora fatto quello che la legge impone. Nessuno aveva spiegato a quattro uomini che infilarsi in quel budello avrebbe significato la morte certa. Nessuno aveva verificato di quanto veleno fosse satura quella bestia in acciaio dove Pierluigi, Daniele e Bruno hanno perso la vita uno dopo l’altro. Nessuno, forse, gli aveva mai spiegato neanche cosa fosse l’azoto. Il veleno che uccide subito. Senza odore e senza rumore.
Carlo Bonini, La Repubblica, 27 Maggio 2009