La “propaganda dell’esclusione” della Lega.

Ho nel cassetto una laurea in dialettologia italiana, rispolverata
soltanto per alcune rare pubblicazioni locali. Tuttavia la boria
dialettofona sbandierata in questi giorni dai boss leghisti mi
incoraggia ad esprimere un’opinione sulla questione dell’insegnamento
dei dialetti. La Lega non solleva un problema nuovo. L’Italia ha una
storia secolare di frammentazione linguistica, tanto che al momento
dell’Unità l’italiano non era parlato che da un’esigua minoranza di
popolazione agiata. Per agevolarne l’apprendimento, i programmi
scolastici inviatavano i maestri ad evitare le espressioni dialettali e
il fascismo esasperò questa politica. Dopo, complici i movimenti
migratori interni e la diffusione della tv, le stesse famiglie
proteggevano i figli dal dialetto, temendo gli insuccessi scolastici.
Solo negli anni ’60 e ’70 ci fu una valorizzazione dei dialetti nei
loro aspetti storici e culturali, come strumento per l’insegnamento
dell’italiano e come oggetto di studio interdisciplinare. Un interesse
sacrosanto, poiché l’insegnamento dell’italiano trascurava la realtà di
partenza degli alunni e proponeva una lingua ingessata, studiata sui
libri ma con la quale le nuove classi sociali finalmente affacciatesi
nelle aule non erano a proprio agio nella vita quotidiana. Era un
interesse che si accompagnava a un tentativo di riscatto delle classi
subalterne, che dette luogo a un uso del dialetto in letteratura e in
musica, lungo un filone fortunatamente mai esaurito, che va – pescando
a caso – da Buttitta a Camilleri, da De André fino al recentemente
scomparso Ivan Della Mea. Poi, negli ultimi decenni, l’uso dei dialetti
è diminuito, sono entrate nel sistema italofono altre lingue, tv e
internet hanno moltiplicato le varietà linguistiche con le quali
veniamo a contatto. Ecco dunque le proposte di "salvezza" dei dialetti,
ma con vari problemi: quale dialetto insegnare, locale o regionale? Di
quali indicatori deve tener conto la scelta degli insegnanti, la
nascita, il Dna, il titolo di studio? Un alunno che cambia casa studia
il veneziano fino alla seconda e il romanesco dalla terza in poi? E
così via.
Ora la Lega innalza barriere attorno ai singoli localismi, più o meno
geograficamente estesi. Vanno in questa direzione il pacchetto
sicurezza con la criminalizzazione di ogni presunta differenza e
devianza, il regionalismo fiscale, le gabbie salariali, nonché il
progetto di salvaguardia dei dialetti, con il maligno intento di
recuperare la tradizione al solo fine di marcare una differenza, un
"altro da noi", anche linguisticamente estraneo. La minoranza cerca di
proteggersi, conservando i propri particolarismi e isolandosi dagli
altri. La causa di molti conflitti sta nel semplice fatto che "gli
altri" sono "diversi", un po’ come nel racconto biblico del libro dei
Giudici, dove i galaditi uccisero 42 mila efraimiti riconoscendoli dal
modo con cui pronunciavano la parola scìbbolet . La cosa noiosa di
questa alzata d’ingegno della Lega è la reiterazione del danno, uno
sfacciato martellamento di proposte malsane. Allora è meglio ribadire
che la scuola italiana, quanto meno prima del ciclone-Gelmini, era una
scuola decente, dove la didattica della lingua cercava di valorizzare
il patrimonio locale, ma insegnando a padroneggiare la più ampia gamma
possibile di varietà linguistiche, dall’italiano formale fino a quelle
colloquiali e dialettali che ciascuno di noi ha il piacere di
utilizzare quando parla con i propri amici.

Considerando la varietà come arricchimento, in un quadro in cui si
intrecciano fatti linguistici, sociali e culturali. All’interno di
questo contesto, ogni insegnante della mia città, mentre insegna che
strumento meraviglioso può essere ogni lingua, dovrà tener conto che da
noi la parola cannella significa rubinetto e che granata significa
scopa, e che tutte quante queste parole fanno parte del nostro
patrimonio, cosa che ci consente di scegliere quella più adeguata per
ogni specifico atto comunicativo. Mi pare che in questa estate
narcotizzata stiamo prestando poca attenzione al fatto che allorché il
recupero delle nostre radici non avviene con l’intento di costruire un
saldo basamento per affrontare le sfide del presente, ma avviene
attraverso una "propaganda dell’esclusione", a questo deve essere
opposta un’alternativa sensata, combattendo con ogni forza civile e
morale perché, senza che ce ne accorgiamo, quella popaganda
dell’esclusione non si trasformi in pogrom.

 Barbara Beneforti 

(da Liberazione, 18-08-2009)

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