Della maxioperazione da tre miliardi di euro della Eni in Congo per ora di concreto ci sono solo una serie di protocolli d’intesa fra l’azienda e lo stato africano e le promesse fatte e ribadite dall’amministratore delegato Paolo Scaroni (in foto) di operare rispettando ogni standard di sostenibilità ambientale. Il rischio, tuttavia, è che la Repubblica del Congo si possa trasformare, nel giro di pochi anni, in una zona ad alto rischio di inquinamento. È quanto prospettato nel rapporto “Energy Futures? Eni’s investments in tar sands an palm oil in the Congo Basin” stilato dalla Heinrich Böll Foundation, la fondazione del partito dei Verdi tedeschi. Un dossier di quaranta pagine nel quale, prima, sono elencati tutti i possibili rischi dell’ampliamento operativo del colosso energetico italiano nel paese con la seconda foresta tropicale più grande del mondo e, poi, vengono rivolte una serie di raccomandazioni all’Eni, alla Repubblica del Congo e al governo italiano in quanto azionista, al 30 percento, dell’ente idrocarburi.
Il progetto. L’Eni, presente nella Repubblica del Congo dal 1968, ha sottoscritto lo scorso 19 maggio un piano di cooperazione con il governo di Brazzaville per integrare nella normale attività di produzione ed esportazione di idrocarburi nuove operazioni per l’uso di oli non convenzionali e delle energie rinnovabili che, tradotto nella lingua degli ambientalisti, vuol dire sfruttamento delle sabbie bituminose e dell’olio di palma nel bacino del Congo. Le aree che saranno interessate dall’attività della società sono quella di Tchikatanga e di Tchikatanga-Makola che insieme coprono un’estensione di 1790 chilometri quadrati. Vige ancora stretto riserbo, invece, su quello che sarà il territorio dove si produrrà olio di palma, anche se da piazzale Mattei si è sempre tenuto a specificare che che si tratterà di 70mila ettari di terre non coltivate (savane).
Sabbie Bituminose. In pratica gli esperti insegnano che la lavorazione delle sabbie bituminose ha sempre comportato enormi rischi per l’ambiente nel quale sono state trattate. Le sabbie bituminose sono depositi di sabbia e argilla satura di bitume ovvero petrolio allo stato solido o semi-solido. Il procedimento per convertire il bitume in greggio può avvenire in due modi a seconda della profondità in cui si trova il materiale. A meno di 75 metri sotto terra si usa il metodo a miniera che consiste nello sradicare gli alberi presenti sull’area interessata e drenare il suolo per recuperare le sabbie bituminose. Queste, a loro volta, vengono caricate su grandi camion e trasportate in un impianto di estrazione dove, col calore e l’acqua, il bitume viene separato dalla sabbia. Per capire lo spreco di risorse naturali basti pensare che per produrre ogni barile di greggio sono necessari, in media, dai 2 ai 4.5 barili d’acqua. Gli scarti di questo processo vengono chiamati tailings e sono depositati in immense vasche di raccolta, visibili anche dallo spazio, che rilasciano nell’aria enormi quantità di vapori tossici. Oltre i 75 metri di profondità si usa il metodo cosidetto in situ che consiste nel separare il bitume dal resto degli elementi direttamente sotto terra e portarlo in superficie mediante l’uso di forti getti di vapore. Seppur meno dannoso a livello di impiego d’acqua – 0.8 barili per ogni barile di greggio prodotto – anche questo metodo è considerato estremamente inquinante.
Olio di palma. L’area interessata dalla coltivazione dell’olio di palma in Congo è di 70mila ettari ovvero l’equivalente dell’area metropolitana di Milano. L’Eni ha ribadito che il progetto non coinvolgerà le foreste e le zone ad alta intensità di biodiversità. Inoltre, secondo quanto promesso dai dirigenti di EniCongo, il piano prevede l’assunzione di oltre 10mila lavoratori locali. Questi sono gli unici dati che, finora, è concesso conoscere. L’obiettivo dell’azienda è quello di unire l’utile, lo sfruttamento dell’olio per la produzione di biocarburanti, alla sostenibilità, ovvero adempiere alla responsabilità sociale d’impresa con la distribuzione di olio alimentare alle popolazioni locali. Queste, secondo quanto dice il dossier, non sono state ancora avvisate circa i rischi e le possibili richieste d’esproprio dei loro terreni per uso pubblico, che poi pubblico non sarebbe.
Il rischio. La partecipata statale, vincitrice di diversi premi come azienda impegnata nel settore del sociale e della sostenibilità ambientale, dovrà stare attenta ai rigorosi standard di trasparenza imposti dalle convenzioni internazionali sia per quanto riguarda l’aspetto fiscale che per ciò che concerne le emissioni inquinanti. L’azzardo è proprio quello di lavorare insieme al Congo, paese che solo nel 2008 ha ricavato dall’export del petrolio 4,4 miliardi di dollari ma in cui il 70 percento della popolazione vive ancora sotto la soglia di povertà. Per avere un’idea di come vengono gestiti questi soldi basti pensare che la Repubblica del Congo risulta essere uno “dei peggiori dieci paesi” nell’Index of African Governance stilato dalla World Peace foundation. Nel 2007 un’indagine della polizia francese rivelò che il presidente Sassou Nguesso – ancora in carica – e la sua famiglia possedevano ventiquattro proprietà immoblliari in Francia per il valore di diversi milioni di dollari, tra cui una villa privata del presidente alla periferia di Parigi e un lussuoso appartamento intestato alla moglie in pieno centro del valore di 2,5 milioni di euro.
di Antonio Marafioti, tratto da PeaceReporter.net