Parlano i documenti: sin dagli anni 80 in Europa agiva un comitato d’affari sovranazionale che spingeva l’Unione Europea e i governi a stravolgere dalle fondamenta l’idea stessa di istruzione pubblica, preparando la strada all’entrata delle imprese nella gestione della scuola. Si tratta di un percorso tortuoso che vale la pena seguire per capire che cosa ha agito sullo sfondo delle “riforme” della scuola volute dai governi italiani succedutisi negli ultimi 15 anni, di destra e di “sinistra”: fino alla riforma gelminiana delle scuole superiori, in corso di approvazione proprio in questi giorni.
«I compiti dei sistemi d’istruzione e di formazione, la loro organizzazione, il contenuto degli insegnamenti, perfino la pedagogia sono stati oggetto di dibattiti spesso appassionati. La maggior parte di tali dibattiti appare oggi superata. Le interconnessioni fra scuola e impresa si sono sviluppate. Ciò mostra che le barriere culturali o ideologiche che separavano l’istituzione educativa e l’impresa si sfaldano a vantaggio delle due istituzioni. […] L’impresa è ormai un’importante produttrice di conoscenze e di nuove competenze. […] La necessità di questa evoluzione è ormai riconosciuta: la migliore prova ne è data dalla fine dei grandi dibattiti dottrinali sulle finalità dell’istruzione».
Con queste parole già nel 1996 l’U.E., nel suo libro bianco Insegnare e apprendere, voleva stabilire un punto di non ritorno sulle politiche dell’istruzione e sul dibattito in corso, sancendo in via definitiva l’entrata a pieno titolo delle imprese nella gestione diretta della pubblica istruzione dei cittadini europei. Di lì a poco in Italia sarà un governo di centrosinistra che, tramite il grimaldello dell’autonomia scolastica, comincerà per primo a predisporre il lento percorso dell’entrata delle imprese nel mondo della scuola. L’autonomia delle scuole diventa legge in Italia sotto il dicastero (1996-2000) di Luigi Berlinguer, Ministro della Pubblica Istruzione sotto il governo Prodi, il primo non democristiano della storia della Repubblica. Su questa spinta continueranno a muoversi nella direzione della scuola-azienda le riforme o tentativi di riforma dei suoi successori Moratti, Fioroni e Gelmini. Nell’Italia di oggi il processo non è affatto concluso: l’ultimo tentativo, quello del disegno di legge Aprea, dove le istituzioni scolastiche potevano costituirsi in fondazioni, con la possibilità di avere partner pubblici o privati, e in cui il Consiglio d’istituto diventava “Consiglio di amministrazione”, ha subìto uno stop non si sa quanto temporaneo, mentre Tremonti-Brunetta-Gelmini spingono per rimettere tutto in gioco… E non serve un grosso sforzo di immaginazione per capire come all’aumento dell’influenza di privati e imprese sui meccanismi dell’istruzione corrisponda un progressivo sgretolamento dell’idea stessa di istruzione pubblica: è un fenomeno tutt’ora in corso e dagli esiti indefinibili, legati tutti all’opposizione che gli interessati (studenti, genitori, insegnanti: utenti dunque e lavoratori della scuola) riusciranno in questo periodo cruciale a mettere in campo.
A metà degli anni 90 dunque il fenomeno era già entrato a pieno titolo nell’agenda dell’Unione europea. Erano gli anni dell’attuazione delle finanziarie di «lacrime e sangue» varate a partire dal governo Amato, e delle prime attuazioni dei “contratti atipici” in accordo con i sindacati confederali. Sul piano teorico, questo era nient’altro che il punto di arrivo di una riflessione che già aveva radici lontane. Già sembravano passati secoli dalle grandi lotte collettive degli anni 60 e 70, dall’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori (1970), dai Decreti delegati (1974) che stabilivano, pur con notevoli limiti, l’intervento democratico e la partecipazione di rappresentanze genitoriali e studentesche alla gestione della scuola. Poi il “buco” degli anni 80, il riflusso della partecipazione e il rifugio nell’individualismo: terreno adatto per chi negli anni 70 aveva subìto l’iniziativa popolare e di massa ed era alla ricerca di una rivincita storica.
Gli anni 80: proprio in questo periodo, e non a caso, si apre una nuova fase produttiva a livello mondiale, caratterizzata da una costante e velocissima innovazione delle tecnologie e dei prodotti. È il momento in cui la produzione mondiale raggiunge livelli quantitativi e qualitativi mai visti prima, in un processo che dura ed è in piena progressione ancora oggi. Ed è il momento in cui i grandi imperi finanziari e produttivi cominciano a rivolgere direttamente la propria attenzione al mondo dell’istruzione e della scuola. Dalla scuola, secondo il punto di vista dei nuovi imprenditori rampanti, usciranno i lavoratori destinati, in vari gradi, alle industrie e alle imprese che, in maniera mai vista prima, cominciavano a diffondersi capillarmente nei territori, richiedendo innanzitutto manodopera flessibile e sottoposta a livelli di produttività tanto vasti quanto multiformi e cangianti: una manodopera precaria, dunque, priva di diritti e piegata alle esigenze primarie della produzione. La scuola è, secondo il punto di vista dei nuovi industriali di quegli anni, il primo momento di formazione di un homo novus, plasmato sull’esigenza delle multinazionali. Si tratta, d’altra parte, di mettere a profitto l’enorme mercato dell’istruzione, la cui spesa ammonta, già da quegli anni, a più del doppio del mercato mondiale dell’automobile.
In Europa i grandi industriali decidono di elaborare in concerto un piano comune di intervento sui meccanismi dell’educazione e dell’istruzione nel momento in cui si presenta, ormai irrimandabile, la necessità che la futura forza-lavoro si prepari a un continuo riadattamento delle proprie competenze di fronte alle nuove richieste della competitività, della velocità delle innovazioni, delle continue riconversioni aziendali e industriali. È il tentativo di adattare la funzione sociale della scuola al ritmo dei rapidi cambiamenti e delle trasformazioni economiche che proprio in questo periodo cominciano ad assumere proporzioni mai viste.
Nel 1983 viene dunque creato l’ERT, European Round Table of Industrialists, una struttura che raccoglie una quarantina tra i dirigenti delle maggiori imprese e multinazionali europee; partecipano alla fondazione gli italiani Carlo Debenedetti (Olivetti) e Umberto Agnelli (Fiat), insieme ad altri leaders delle peggiori multinazionali mondiali (Nestlé, Thyssen, Ciba-Geigy…). Si tratta in concreto di una potentissima lobby economica che influenza direttamente il Parlamento europeo, perseguendo gli obiettivi di innalzare la competitività europea al livello degli Stati Uniti e del Giappone, modernizzando l’industria di base e intervenendo direttamente in settori cruciali: privatizzazione di vitali servizi pubblici, riforma dei sistemi pensionistici, deregolamentazione del mercato del lavoro, distruzione dei sistemi della pubblica istruzione. L’ERT è la lobby che si muove sullo sfondo dell’Europa di Maastricht.
Un’attenzione speciale viene dedicata dall’ERT alla promozione di campagne per «l’alta qualità dell’educazione e della formazione», tanto che dal 1987 al 1999 è attivo al suo interno uno speciale Gruppo di lavoro sull’educazione: presieduto da manager di varie multinazionali (Nokia, Petrofina… ), il gruppo elabora una serie di reports che esprimono senza margini di dubbio le richieste degli industriali al mondo della scuola e dell’istruzione. La lettura di questi rapporti è importante per capire fino a che punto le riforme della scuola susseguitesi in Italia a partire dalla seconda metà degli anni ’90 siano state influenzate dalle direttive delle imprese.
In Educazione e competenza in Europa (1989) si afferma: «L’amministrazione della scuola [è] dominata dalle esigenze burocratiche. Le pratiche amministrative sono troppo rigide per permettere ai centri d’insegnamento di adattarsi ai cambiamenti richiesti dal rapido sviluppo delle moderne tecnologie e delle ristrutturazioni industriali e terziarie», per cui occorre «un rinnovamento accelerato dei sistemi d’insegnamento e dei loro programmi.» Nel rapporto L’istruzione per gli europei. Verso la società della conoscenza (1995), si afferma ancora che «la responsabilità della formazione deve, in definitiva, essere assunta dall’industria. Sembra che nel mondo della scuola non si percepisca chiaramente quale sia il profilo dei collaboratori di cui l’industria ha bisogno. L’istruzione deve essere considerata come un servizio reso al mondo economico. I governi nazionali dovrebbero vedere l’istruzione come un processo esteso dalla culla fino alla tomba. Istruzione significa apprendere, non ricevere un insegnamento».
Investire in conoscenza. L’integrazione della tecnologia nella scuola europea (1997) è ancora più chiaro: «Non abbiamo tempo da perdere. […] Ci appelliamo ai governi perché diano all’educazione un’alta priorità, perché invitino l’industria al tavolo di discussione sulle materie educative, e perché rivoluzionino i metodi d’insegnamento con la tecnologia».
I rapporti dell’ERT non passano inosservati, e arrivano a influenzare direttamente le direttive della Comunità europea, che prima dell’entrata in vigore del Trattato di Maastricht (1992) non si era mai interessata dell’istruzione. L’articolo 126 del Trattato di Maastricht accorda per la prima volta alla Commissione europea competenze in materia di insegnamento. A tal fine viene creata la Direzione generale dell’Educazione, della Formazione e della Gioventù, diretta dalla socialista francese Edith Cresson: si tratta di una sorta di ministero europeo dell’educazione. Attraverso questo tramite si attua una sorta di dialogo a distanza, spesso filtrato dagli interventi in prima persona delle varie Confindustrie, tra l’ERT e i governi europei, sia di destra che di sinistra, che a partire dalla seconda metà degli anni ’90 danno il via a una serie di riforme della scuola.
Il rapporto dell’ERT del 1989 citato sopra, del resto, aveva già affermato che «per creare l’impeto che permetta di ottenere i cambiamenti necessari […] crediamo che dovrebbero costituirsi associazioni tra le scuole e le imprese locali ed anche con organizzazioni sociali e culturali». Una risposta diretta arriva dall’Unione Europea che in un suo rapporto del 2005 afferma che bisogna «costruire partenariati a livello nazionale, regionale, locale e settoriale con le principali parti in causa, tra cui i datori di lavoro e le organizzazioni sindacali […]. Ciò consentirà agli istituti di stimolare il senso imprenditoriale e di iniziativa di cui gli studenti e le persone in formazione hanno bisogno. […] Tale ravvicinamento accresce le opportunità di accesso all’occupazione e di adattamento alle trasformazioni dell’attività lavorativa».
Il mondo della produzione, le imprese, vogliono entrare nella gestione della scuola in modo da dirigere i processi della formazione e dell’istruzione. Punti chiave degli interventi: l’autonomia, la formazione continua o long-life learning, la riflessione sulle competenze.
Lo strumento strategico per fare entrare le imprese all’interno delle scuole è quello dell’autonomia scolastica. La Confindustria europea nel rapporto Per una scuola di qualità. Il punto di vista degli imprenditori (2000) affermava che «i governi devono attribuire alle scuole l’autonomia organizzativa, didattica e gestionale. Le scuole […] dovrebbero poter scegliere il personale insegnante e instaurare stretti rapporti con genitori, comunità locale, altre scuole e mondo del lavoro». E se la proposta di legge Aprea, citata sopra, spinta dall’attuale dicastero Gelmini, rappresenta la punta avanzata di questa tendenza, non sono certo da meno le proposte “alternative” elaborate dall’attuale “opposizione” parlamentare. Il testo che segue è citato dalla Proposta di legge del Partito democratico n. 1262, presentata il 5 giugno 2008, proprio in “alternativa” alla proposta Aprea: «Il consiglio dell’istituzione scolastica […] si profila come un organismo fortemente rappresentativo dell’intera comunità scolastica, della sua identità e della sua attività; conseguenza logica ne è l’apertura al territorio e l’eventuale accoglienza nel suo seno di membri esterni alla comunità scolastica. La scelta è rinviata allo statuto che può prevedere la possibilità di partecipazioni esterne (rappresentanze delle autonomie locali, delle università, delle associazioni, delle fondazioni e delle organizzazioni rappresentative del mondo economico, del terzo settore, del lavoro e delle realtà sociali e culturali presenti sul territorio), che possono integrare la composizione del consiglio e alle quali può essere attribuito voto consultivo o deliberativo».
L’esigenza di adattare l’istruzione ai livelli di flessibilità lavorativa e cognitiva richiesti dai nuovi livelli di produzione e dal mercato trova accoglienza nel concetto di formazione continua – apprendimento permanente. Il sopracitato report dell’ERT del 1989 sosteneva la necessità di «un processo di apprendimento continuo – formazione permanente che deve iniziare insegnando ai bambini a “imparare come si impara”.» Un rapporto dell’Unione Europea accoglieva nel 2001 la richiesta, in questi termini: «Nell’attività lavorativa, la complessità dell’organizzazione del lavoro, l’aumento dei compiti che i dipendenti devono svolgere, l’introduzione di schemi di lavoro flessibili e di metodi di lavoro a squadre significano che la gamma delle competenze utilizzate sul posto di lavoro viene ampliata costantemente.» Il long-life learning si presenta dunque come una richiesta aggiuntiva di competenze flessibili a uso e consumo della nuova impresa, i cui oneri sono scaricati tutti sulle spalle del lavoratore, che dovrà garantire a sue spese una preparazione all’altezza delle esigenze della produzione. Forse gli argomenti usati dall’ERT e dall’Unione Europea dovevano essere assai convincenti, se tra i firmatari di una proposta di iniziativa popolare per il diritto all’apprendimento permanente troviamo anche la CGIL…
Su un piano più sottile si pone l’importanza centrale data dai manager d’impresa della nuova Europa alla categoria della competenza a discapito di quella della conoscenza. È la richiesta di una scuola incentrata sul fare invece che sul sapere, che presuppone un homo novus abile, efficiente e naturalmente flessibile. Che conta, in questo contesto, l’approfondimento, la conoscenza, il pensiero? L’intera categoria della conoscenza è liquidata a «nozionismo», le imprese del futuro non hanno tempo da perdere con quisquilie di questo tipo, che abituano le persone a ragionare di testa propria, fino, in teoria, a fornirgli argomenti per opporsi ai piani del padronato. «Noi crediamo che il prodotto della catena educativa deve essere un individuo a tutto tondo che abbia una conoscenza e delle competenze base più ampie che approfondite, allenato a imparare a imparare e motivato a imparare sempre di più» (ERT, 1995). «[Esiste] la necessità di spostare la priorità dalla ‘conoscenza’ alla ‘competenza’ e dall’insegnamento all’apprendimento» (Commissione Europea, 2001). «Numerosi mutamenti sociali, culturali, economici e tecnologici nell’ambito della società comportano per gli insegnanti la necessità di rispondere a nuove esigenze e rendono urgente la necessità di sviluppare approcci all’insegnamento maggiormente incentrati sulle competenze, ponendo ancor più l’accento sui risultati dell’apprendimento» (UE, Sul miglioramento della qualità della formazione degli insegnanti, 2007). «Per accrescere la qualità dell’apprendimento si propone: a) la riduzione del numero delle discipline nella scuola secondaria superiore, l’accrescimento dell’orario annuale delle discipline scientifiche e tecnologiche e l’applicazione generalizzata della pratica sperimentale per rafforzare le competenze essenziali e ridurre il nozionismo» (Confindustria, Piano d’azione per la scuola, 2007).
Non stupisca dunque, a questo punto, la tracotanza con cui vengono fatti passare messaggi di questo tipo. Ma un brivido di indignazione mista a frustrazione deve aver percorso le schiene di diversi insegnanti di scuola media, precari e non, quando, innocentemente mischiato alle altre prove cosiddette INVALSI elaborate dal gelminiano Ministero dell’Istruzione, hanno trovato tra i vari test da sottoporre all’analisi degli studenti in prova di esame di stato di terza media 2008-2009 uno scritto che, in conclusione, riproponiamo:
«Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L’interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica.»
Si trattava evidentemente di un malcelato tentativo di far passare come del tutto naturale, addirittura conveniente, per il giovane studente in uscita dalle scuole medie, il passaggio a un nuovo contesto studentesco e/o lavorativo di flessibilità e di precarietà. Il brano era tratto dal best-seller Oltre il 2000, pubblicato nel 1993 da Nicola Cacace, considerato un grande esperto di previsioni strategiche dei futuri scenari dell’economia e del lavoro, e per questo consigliere economico di diversi ministri della Repubblica. Svalutazione dell’idea di «posto fisso», «mobilità professionale», «apprendimento continuo», «disoccupazione tecnologica»: lo scritto di Cacace è capace di sintetizzare in poche parole tutta la storia dell’attuale involuzione scolastica e lavorativa. Va dato atto che comunque le previsioni di Cacace, a quasi 20 anni dalla loro elaborazione, si sono dimostrate azzeccatissime: lo sgretolamento dei diritti acquisiti in anni di lotte dei lavoratori con l’immissione forzata nel mondo del lavoro di una flessibilità che nel nostro paese è sinonimo solamente di precarietà selvaggia e diffusa, di pari passo con la lenta entrata delle imprese nella scuola e lo stravolgimento dell’idea di “pubblica istruzione” che le riforme che si sono susseguite dagli anni ’90 ad oggi hanno attuato o cercato di attuare, testimoniano il successo oltre le aspettative di siffatte tesi.
A cura di Desmond G.
L’articolo si basa su materiali forniti durante il convegno Cesp – Centro studi per la scuola pubblica, tenutosi a Pisa il 10/12/2009.