Quando in galera è il tuo corpo che diventa il luogo della rivolta

Alì Juguri era un cittadino iracheno, arrestato in Italia per il
tentato furto – pare – di un telefonino. Detenuto da molti mesi aveva
iniziato uno sciopero della fame durissimo. Carcere di Vasto, carcere
dell’Aquila, poi in ospedale. Si dichiarava innocente. Il tribunale, in
primo grado, lo aveva giudicato colpevole e lo aveva condannato a un
anno e qualche mese.

Non sappiamo perché Alì non avesse ottenuto la
condizionale e la scarcerazione. Non sappiamo come fosse stata
impostata la sua difesa. La storia di Alì Juguri, che leggerete nelle parole di Paolo Persichetti, è una storia semplice
e come tutte le cose veramente semplici è importante. È una storia di
carcere, di pena certa – come si dice oggi – di sistema giudiziario. E
poi, soprattutto, come avete capito, è una storia di morte. Perché Alì
è morto, due giorni fa, nell’ospedale de L’Aquila.

Paolo Persichetti per Liberazione (13.08.2008)

La vicenda di Alì Juburi, il detenuto iracheno quarantaduenne morto
lunedì scorso a causa di uno sciopero della fame intrapreso per
protesta contro una condanna che considerava ingiusta, è una di quelle
notizie che troviamo confinate nelle brevi dei grandi quotidiani
nazionali o che al massimo riempiono lo spazio di un articolo della
stampa locale. Vite che scivolano via nell’indifferenza generale,
sospiri persi nelle distrazioni di una estate afosa. Le cronache ci
dicono che si trattava probabilmente di una persona sorpassata dagli
eventi, triturata dai meccanismi di un dispositivo burocratico-punitivo
che non riabilita ma macera le esistenze, soprattutto quando sono
fragili.

Arrestato a Milano, rinchiuso a san Vittore, subito dopo la condanna
di primo grado gli è toccato il destino dei tanti stranieri ospiti
delle nostre carceri: lo sfollamento. I grandi carceri
giudiziari funzionano così. I detenuti appena condannati vanno via per
lasciare posto ai “nuovi giunti”. Qualcuno ce la fa a restare perché
c’è sempre una piccola sezione penale pronta ad accogliere i
raccomandati, quelli che hanno un mestiere utile al carcere (muratori,
idraulici, elettricisti) e gli asserviti alla custodia. I residenti
finiscono nei “penali” della città, se esistono, o nelle carceri della
provincia. I più sfigati vengono distribuiti nella regione. Una norma
del regolamento penitenziario salvaguarda il diritto di prossimità al
luogo di residenza dei familiari, l’istituto di assegnazione non deve
distare oltre i 300 chilometri. Così c’è scritto… Il criterio non vale
per le categorie speciali, come i detenuti in 41 bis, gli Eiv.

Gli stranieri (una volta si diceva “forestieri”, parola migliore che
indica soltanto la provenienza da fuori, non l’estraneità, la
diversità), che nella stragrande maggioranza dei casi sono soli,
vengono sbattuti, “tradotti” (altro termine della burocrazia
penitenziaria) nei quattro angoli del paese. Da una città del Nord a
causa di uno sfollamento si può arrivare anche in Sicilia. Juburi era
finito a Vasto, sul litorale abbruzzese. Condannato a un anno e tre
mesi era rimasto in carcere. Non risulta che avesse recidive, non aveva
altre condanne e si protestava innocente per quella che aveva subito.
Secondo la legge avrebbe potuto essere fuori. Per gli incensurati che
incorrono in pene inferiori ai due anni è prevista la condizionale. Il
pacchetto sicurezza, che per alcuni reati detti di «particolare allarme
sociale» modifica questa norma, è stato approvato solo più tardi.
Juburi deve essere incappato in un giudice che ha anticipato i tempi,
uno di quelli che annusano con particolare solerzia la direzione del
vento. Sicuramente non aveva avvocato, non poteva permettersene uno
bravo. Avrà avuto un legale assegnato d’ufficio che senza parcella non
si è minimamente interressato al suo caso. Per lui nessuna misura
alternativa.

Se sei straniero non vale. È più facile che ti condannino perché su
di te pesa un pregiudizio sfavorevole. Magari ti manca il permesso di
soggiorno e hai una residenza al nero che non puoi certificare. Allora
non ti resta che accettare il carcere e aspettare che passi. Potresti
fare una richiesta di rimessa in libertà, ma non lo sai, non parli bene
la lingua, non conosci le leggi, ti chiedono solo di rispettarle. Hai
solo doveri ma non diritti. Magari sei sfortunato e non incontri
nessuno che vuole o può aiutarti. Nessuno che si sofferma a parlarti,
che ti chiede da dove vieni, perché sei lì. Sei solo un paria,
uno dei tanti buttati in fondo a una cella. Non capisci cosa succede e
perché ce l’hanno tanto con te che volevi solamente vivere, mangiare,
vestirti, avere una donna, dei figli. No, per te non vale. Allora ti
monta la rabbia, una rabbia che ti torce le budella, ti prende lo
stomaco, ti fa digrignare i denti. Vorresti urlare al mondo
quell’assurda situazione, ma oltre le mura del carcere c’è solo
campagna. Una bella campagna che ti ricorda la tua terra. Gli alberi da
frutto, gli ulivi. Ricordi quando eri bambino e correvi tra i campi di
grano. Invece ora apri gli occhi e vedi solo sbarre e cemento mentre la
vita scorre ritmata dal rumore di grosse chiavi d’ottone. Fuori non c’è
nessuno, solo il vento. La rabbia allora fa il cammino inverso, ritorna
in te, s’impadronisce del tuo corpo, lo usa come un’arma. Tu diventi il
luogo della lotta, lo strumento della protesta. Non hai altro. Hai solo
quel corpo e lo usi.

Un filosofo che conosce quelle parole che tu non sai la chiama la
«nuda vita». Tu fai della nuda vita il mezzo della rivolta. Non accetti
quel che succede. Smetti di mangiare. I primi giorni senti freddo,
tanto freddo. Brividi atroci lacerano le tue ossa, la notte il cuore
batte fortissimo, ti prende l’affanno. Poi senti come una febbre che ti
brucia la pelle. Il corpo divora se stesso. Il tuo peso precipita ma tu
già non senti più il morso della fame. Lo stomaco si è chiuso, le forze
mancano, ma basta stare fermi e coperti. Le ore passano nel
dormiveglia. Ormai sei nella vertigine e non sai più tornare indietro.

Dicono che sia un mezzo di lotta nonviolenta. Che fesseria! Non c’è
forma più violenta di uno sciopero della fame, di un corpo che divora
se stesso. Autofagia. Altri si mutilano, si tagliano a fettine.
Sfregiano la propria pelle con idelebili cicatrici. Rughe che parlano
di dolore. Piaghe vive, zampilli di sangue che sporcano i muri tra urla
eccitate e fuggi fuggi generale. Un modo di richiamare l’attenzione,
segno di fragilità, di disperata voglia di comunicare senza avere gli
strumenti giusti per farlo. Nel 2007 (fonte Antigone) gli atti di
autolesionismo recensiti sono stati 3687. Circa duemila in meno del
2004, grazie agli effetti dell’indulto. Comunque l’8,14% della
popolazione detenuta. La triste storia di Alì Jaburi insieme a queste
cifre cifre ci dice che il carcere è il problema, non la soluzione.

 

 

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