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Genova – L’85 per cento
delle 252 vittime di Bolzaneto non andava neppure fermato. E chissà se i
ragazzi torturati – che ci sia stata tortura lo dice la recente sentenza – sono
stati ‘solo’ 252: dagli interrogatori e dalle interviste ne spuntano altri,
finora sconosciuti. Arriva oggi in libreria "Bolzaneto. La mattanza della
democrazia" (DeriveApprodi, pp. 256, euro 15), primo libro
"vero" sul massacro nella caserma di Genova-Bolzaneto durante il G8
del 2001. Vero perché parte dalla sentenza del luglio scorso. Vero perché
l’autore, Massimo Calandri di Repubblica, ha raccolto atti in gran parte
inediti e ha aggiunto col suo lavoro, ricostruzioni, interviste e racconti. Una
documentatissima prefazione di Giuseppe D’Avanzo rende perfettamente il clima e
spiega i retroscena. Un lungo filo rosso per capire come mai, oggi, in Italia,
possano esistere torturatori e torturati. (r. n.)
Ecco, di seguito, un estratto del
secondo capitolo.
La torta al cioccolato
Quando mi hanno presa per un
braccio. E’ in quel momento che tutto ha avuto inizio. Una mano mi ha afferrata
forte, poco sotto la spalla. In realtà non ho sentito vero dolore. Cioè, niente
che poi abbia lasciato lividi, o graffi, un qualche arrossamento della pelle.
Nessun segno, davvero. Però una sensazione precisa e strana. Qualcosa di buio.
Un male profondo. Come l’alito d’una bestia crudele. Come una scossa elettrica.
Come una puntura velenosa. E’ cominciato esattamente allora, mi ricordo bene. Non
un minuto prima. Non quando mi hanno legato le mani dietro la schiena. Neppure
quando la poliziotta mi ha colpita con un pugno. Mi si è avvicinata e credevo
sorridesse, ho pensato: finalmente, una donna. Lei capirà, mi porterà via.
Invece le orecchie hanno cominciato a ronzare. Il sapore ferroso del sangue in
bocca. Non è stato quando mi hanno portata via, in quell’auto senza sedili. La
testa che sbatteva da una curva all’altra. L’aria che mancava. Ma non è stato
allora. Posso giurarlo. Perché il male è arrivato dopo. Dopo, quando la
macchina è arrivata a Bolzaneto. Dopo, quando mi hanno presa per un braccio.
Valérie Vie è stata la prima a
violare la Zona Rossa. La prima ad essere arrestata. La prima a venire
accompagnata nel carcere provvisorio genovese. Caserma Nino Bixio, Bolzaneto.
Era in cucina, stava preparando una torta al cioccolato per i figli, guardava
la televisione. Ha visto quelle grate assurde. E tre giorni più tardi, alle
15.30 di venerdì 20 luglio 2001, una mano l’afferra forte.
Qualcuno che mi prende, che mi trascina fuori dall’auto della polizia. Siamo
arrivati, è chiaro. Attraverso i vetri ho intravisto un piazzale e quella che
mi sembrava una piccola folla. Ero confusa, spaventata. Si è aperta la
portiera. Quella sulla destra. E mi hanno afferrato. Era una splendida giornata
di sole, il riverbero mi ha costretto a chiudere gli occhi. Non so quando sia
durato, quanto dura di solito? Un paio di secondi. Uno, due. Buio. Luce.
Intorno a me vedo solo uomini. Immobili. Come una folla dipinta in una piazza
dipinta. In borghese, in divisa. Intorno alla macchina, sui gradini di un
edificio poco lontano. Potrebbero essere cinquanta, o forse mille. Vorrei
contarli ma non ci riesco. Mi guardano tutti, nessuno apre bocca. Non arrivano
segnali e allora provo io a pensare, ad essere razionale. E quello che mi viene
in mente è paradossale. Perché razionalmente vedo dei manichini. Quei guerrieri
di terracotta cinesi, è chiaro di cosa sto parlando? Non umani. Senz’anima. E’
una situazione assurda, mi dico. E la cosa più assurda è proprio quel silenzio.
E’ un film, è un palcoscenico, è una presa in giro? Perché quegli uomini mi
guardano così? Scarto subito l’idea di essere diventata sorda.
Nelle orecchie mi è rimasta l’eco
della portiera della macchina che si chiude. Vedo delle aiuole poco lontano, e
con tutto quel sole per una frazione di secondo immagino di ascoltare le
cicale. Magari il canto di un uccellino. Invece no. Solo il silenzio. Gli
sguardi su di me. Manichini, statue. E quella mano che mi tiene stretta. Che si
impadronisce di me. L’inquietudine arriva così, mi sembra di sentire addosso
l’odore del pericolo. Io sento che sta per cominciare qualcosa di pericoloso.
Valérie non sa di essere il primo prigioniero del G8. Valérie non sa nulla. E’
un alieno, per tutti quegli agenti che l’attendevano. E che ora la scrutano,
l’annusano. Sospettosi, ancora prudenti ma avidi di capire. Ci vorrebbe un
bastone, per toccarla. Meglio una lunga canna. Per irretirla, ed osservarne la
reazione. Come si fa con un animale sconosciuto. Con un nemico. I tre lunghi
giorni di Bolzaneto stanno per cominciare.
La poliziotta e il suo collega,
quelli che mi avevano portato fino lì, sembrano spariti. Forse la macchina è
già andata via, io ormai sono entrata in un’altra galassia. E c’è questo agente
grande e grosso. Che mi tiene forte. Che naturalmente non parla. Mi spinge in
direzione di un edificio di fronte a me. La sensazione di paura sembra salire,
e allora mi ripeto di stare calma. Adesso arriverà un ufficiale, recito
mentalmente. Mi chiederà i documenti e gli spiegherò tutto. Speriamo sia una
persona giovane, speriamo che capisca. Lo scoprirò subito, mi dico, me ne
accorgerò dalla sua espressione. Ma capirà, ne sono certa. E fra dieci minuti
sarò fuori di qui. Mezz’ora, al massimo.
Ecco, è entrata. Ma nessuno le rivolge la parola. Nessuno rompe quel silenzio
assurdo. Valérie adesso è in cella, il volto contro il muro.
E allora aspettiamo, dico. Forse
dovranno parlare con quelli che mi hanno fermato, forse stanno cercando un
interprete. O magari l’ufficiale sta riposando. Con questo caldo… Sicuro,
dev’essere così: stava riposando. Ora hanno bussato alla sua stanza, lui si
riveste e scende. Scende fino alla cella, mi stringe la mano e mi chiede: cosa
è successo, madame?
Passano i minuti. Silenzio.
Silenzio. Silenzio.
Sono così immersa nei miei
pensieri. Così immersa, distante. Rifletto su quanto sia grottesca questa
situazione. Perché la ragione ancora prevale. Sono così immersa – dico – che
neppure mi accorgo che nella cella adesso c’è un’altra persona. E’ una ragazza.
Giovane, meno di trent’anni. Bionda, forse tedesca. Mi dà le spalle. Sembra
sussultare. Ma cosa fa, piange? Piange, singhiozza. Provo a comunicare in
inglese, che ti è successo? Appoggia la fronte al muro, e piange.
Non fare così, non siamo nel
Medioevo. Trema. Avanti, staccati da quel muro, va tutto bene. Va tutto bene,
non avere paura. No. No, mi risponde. Non va tutto bene. Lasciami così, ti
supplico. Mi hanno ordinato di stare così. Faccia contro il muro, gambe
divaricate, faccia contro il muro. Ti hanno ordinato? E fai attenzione,
bisbiglia: mettiti così anche tu, altrimenti saranno guai. Vorrei rispondere a
questa ragazza, vorrei spiegarle che non c’è motivo di preoccuparsi.
Vorrei prometterle che non siamo in pericolo, vorrei abbracciarla. Ma non muovo
un muscolo. Ma non mi esce una sola parola di bocca. Anche io, adesso, sto in
silenzio. Paralizzata. Perché temo di aver compreso. Perché adesso sono
consapevole che la situazione è molto più grave di quanto avessi immaginato.
Perché qualche minuto dopo arriva e mi prende, senza nessun motivo. Il terrore.
***********
Da dove dovrei cominciare? Dalla stretta al braccio, d’accordo. Perché quello è
l’inizio di tutto. Ma dopo, dico. Devo raccontare le manganellate. Oppure gli
schiaffi, i calci. L’umiliazione di spogliarsi davanti a uomini e donne che
ridono di te. Che ti guardano, che scrutano ogni centimetro del tuo corpo, che
ti penetrano con i loro occhi. Tu sei nuda, e ti senti così fragile. Sola. E
tutto intorno a te è sporco, corrotto, nero. Appoggi i piedi sul pavimento e ti
fa schifo, ti spingono da una parte all’altra e ti fa schifo, ti ticono alza
braccia, e girati, e allarga le gambe, e accucciati e ti fa schifo. Vorresti
solo gettarti a terra, perdere conoscenza. Dormire. E scoprire che era tutto un
sogno. Forse potrei parlare di uno, che era finito lì dentro solo per essere
identificato. Voleva il suo nome, tutto qui. L’hanno picchiato, l’hanno
umiliato. E poi: scusa tanto, è tutto a posto. Puoi andare. Quella è l’uscita.
E lui è andato fuori, e non sapeva che fare.
Era buio, non c’erano
indicazioni. E’ tornato indietro. Gli hanno detto: tranquillo, vai a destra e
cammina per un paio di chilometri. Troverai il centro. Naturalmente, era
dall’altra parte che doveva andare. O devo dire del sangue, di ragazzi grandi e
grossi che piangono e tremano, che obbediscono terrorizzati – come automi – ad
ogni ordine. Della notte passata abbracciati, a darci un po’ di coraggio. E
quei mostri che trascinano i loro caschi contro le sbarre delle celle, o
s’affacciano all’improvviso alla finestra e cominciano ad urlare. A fare versi
di animali. A grugnire come maiali. E a ridere.
No, forse è meglio tornare ancora
indietro. Scappare via con l’orologio del tempo. Facciamo che siamo ancora
all’inizio del pomeriggio di venerdì. Che non mi hanno portato a Bolzaneto. Che
sono in piazza Dante, insieme ai francesi di Attac e a centinaia di persone che
protestano. Davanti a noi, quelle stupide grate.
L’obiettivo lo sapete. Volevamo
ritrovarci, e dire che un altro mondo è possibile. Volevamo entrare, oltre la
Zona Rossa, volevamo spiegare a tutti i politici che non è vero quello che
dicono. Non è vero che non ci sono alternative. Perché loro si giustificano
così: purtroppo non possiamo fare altro, amici, compagni, sarebbe bello
cambiare – siamo tutti d’accordo, miei cari: chi non vorrebbe un mondo migliore
– ma disgraziatamente non ci sono alternative. Invece no.
Si può cambiare, eccome. E loro
lo sanno benissimo. Dunque, volevamo entrare. Abbiamo cominciato a spingere, a
spingere. Come è successo che sono stata la prima? Beh, è abbastanza semplice
da raccontare. Avete presente un barattolo di quelli sotto vuoto? Marmellata,
verdure sott’olio, conserva di pomodoro.
Fa lo stesso. Allora: c’è questo
barattolo, e naturalmente non si apre. Chiami tuo marito, che prova a svitarlo.
Non ce la fa, s’arrabbia. Chiede uno straccio da avvolgere, perché scivola. Ci
riprova. Bestemmia. Niente da fare. Arriva un altro uomo. Il nonno. Svita,
svita. Niente. Ma dove ce l’hai la forza, ma lascia fare a me, ma passami
questo barattolo. Arriva il figlio maggiore, il fratello. Insomma. Uomini,
uomini, uomini. Quando il più intelligente di loro – sconfitto, esasperato –
propone di prendere le pinze o peggio ancora un martello, sai che tocca a te.
Che ci devi riprovare tu. E il barattolo – tlac! – magicamente si apre. Bastava
ancora una piccola pressione. Ecco, quel pomeriggio è andata così. Che hanno
spinto in quattrocento per più di un’ora. E ad un certo mi sono trovata lì,
davanti a tutti. Ho appoggiato le mani e la grata di è aperta. Tlac. Come un
barattolo di marmellata.
A Bolzaneto sono arrivata venerdì pomeriggio. Me ne sono andata domenica notte.
Mi hanno fatto male. Male dentro. E perché? Perché avevo fatto un passo in
avanti, a braccia alzate. Ho visto un ragazzo per terra in un corridoio. Privo
di conoscenza. Era a faccia in giù, in una posizione così innaturale – come
disarticolato – che ho pensato: questo è ubriaco fradicio. Lo so che è una
sciocchezza, però ho pensato che fosse sbronzo. E poi ho scorto il sangue che
gli usciva dalle orecchie. Fuori dalla cella ne ho visto pestare uno di brutto.
Pugni, calci, bastonate.
Sembrava un fantoccio, ad un certo punto ha smesso persino di provare a
ripararsi dai colpi con le braccia. Uno dei poliziotti ha ‘sentitò che qualcuno
li stava osservando. Ha alzato lo sguardo, ha incrociato il mio. E’ entrato in
cella come una furia, mi ha preso per il collo, mi ha sbattutto con la faccia
al muro. ‘Ti ho detto che devi stare ferma!’, ha ringhiato. Ho pianto. Ho
pianto perché avevo vergogna di me stessa. Perché quando sono entrata in quella
prigione ho guardato con stupore quella ragazza che mi diceva di stare zitta e
buona. L’ho giudicata. Qui non siamo nel Medioevo, tu sei un essere umano,
dov’è la tua dignità? Ma mezz’ora più tardi ero come lei. Stavo zitta, e
pensavo solo a sopravvivere. E questo è il male più grande che mi hanno fatto,
perché quel rimorso me lo porto dentro. Ce lo portiamo dentro tutti.
Dove ero rimasta? La griglia che
si apre di mezzo metro. Giusto lo spazio per infilarmi. Diciamo che è stato
come essere a teatro. Le tende che si aprono, il palcoscenico. S’accendono le
luci. Tutti hanno fatto un passo indietro, ma qualcuno doveva entrare in scena.
E’ toccato a me. Ho pensato che avevamo vinto. Che bastava fare ancora un piccolo
passo per smascherare questa parodia. Ho capito che era l’istante da vivere. E’
stato come quando vedi dei bambini che attraversano la strada. E tu fai un
passo in avanti, istintivamente.
Ero a fianco di Joseph Bové,
dietro di me c’era una delle madri di Plaza de Mayo. Ho fatto un passo ed ero
felice. Nell’altro mondo. Nella Zona Rossa. Non so quanto tempo sia passato.
Qualche secondo, credo. Sono arrivati degli uomini in divisa, con i caschi e le
maschere anti-gas. Mi hanno portato lontano, io ho alzato le braccia perché
tutti mi vedessero. Perché tutti mi seguissero. E’ fatta, mi sono detta. Adesso
anche gli altri entreranno da nuovi varchi. Adesso gli abbiamo dimostrato come
erano ridicoli, con queste barriere, con le loro assurde gabbie. Adesso ci
riceveranno i rappresentanti degli Otto. Parleremo, parleremo, parleremo.
Capiranno l’assurdità di questo isolamento. Adesso succederà tutto questo.
Invece no.
E’ alta, sottile, ha modi gentili
e pacati. Valérie avuto un’infanzia difficile, dice. Oggi ha quarant’anni, tre
figli. Vive non lontano da Avignone, fa la giornalista. Nella sua famiglia ci
sono stati molti poliziotti, conosce bene i meccanismi di chi veste la divisa.
Me ne ricordo uno, a Bolzaneto.
Credo sia quello che ha avuto la condanna più pesante. Aveva una faccia da
brav’uomo. Gli occhi chiari, lo sguardo fermo. Robusto, calvo. Sapeva un po’ di
francese. Uno con cui si potrebbe parlare a lungo. Ma lontano da quella
caserma. Là dentro mi ha preso il passaporto, lo ha sfogliato. Mi ha mostrato
le fotografie dei bambini. ‘Li vuoi davvero rivedere? Allora firma questo
verbale.
Altrimenti gli puoi dire addio’.
Così mi ha detto, quel brav’uomo. Voleva farcela pagare, ecco. Non mi chiedete
perché. Voleva punirci. Lui, gli altri. Dicevano: i ‘rossì li trattiamo così,
in Italia. Chiedevi un avvocato e si mettevano a ridere. ‘Devi firmare’, mi
diceva. Con quegli occhi dolci. Quel sorriso paterno.
Non lo sapevo di essere la sola,
dentro la Zona Rossa. Non lo sapevo che avevano subito chiuso il varco, che li
avevano ricacciati indietro. Non lo sapevo che mi avrebbero portato a
Bolzaneto. Non lo sapevo ed ero tranquilla. Anche se mi guardavano male, anche
se mi spintonavano lontano da lì. Mi hanno consegnato a degli agenti in
borghese, poi è arrivata quella strana macchina. E la poliziotta. Che mi ha
tirato un bel pugno in bocca, senza motivo. Mi hanno legato le mani dietro la
schiena, e sono finita in macchina, Una strana vettura, senza sedili, con dei
vetri scuri. Avevo la sensazione di soffocare, ma un secondo agente, quello che
si è messo al volante, mi ha fatto segno che sul pavimento c’erano dei buchi
per l’aria. Abbiamo attraversato la città, ho scorto il centro storico e il
porto di Genova. Mi sono commossa, mi è sembrata una città bellissima e ho
pensato come sarebbe stato bello venirci per un gita. Forse era esattamente
questo, che i poliziotti avrebbero voluto dirmi: qui non ci dovevi venire, per
manifestare. Sei venuto, e ora ti meriti tutto ciò. La prossima volta vieni per
visitare la città, sarà meglio.
Repubblica.it
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Bolzaneto: vergogna italiana. Nessuno andrà in carcere. Assolti 30
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"Io, l’infame della caserma che ha
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