La Pantera non siamo noi

Il movimento che in queste settimane sta scuotendo l’Università e le scuole di ogni ordine e grado sta affermandosi in tutta Italia. A partire dall’opposizione alle leggi promosse dai ministri Gelmini e Tremonti, sta costruendo un’opposizione sociale che va oltre la protesta antigovernativa e mette in discussione le relazioni sociali e di potere che si sono consolidate negli ultimi vent’anni, dopo il crollo del muro di Berlino.
Per fare un po’ di ordine nel dibattito lanciamo alcuni spunti di riflessione, cercando di mettere in relazione le nostre azioni col nostro antecedente storico privilegiato, cioè il movimento della Pantera del ’90.

Contesto socio-economico
L’Università
Le lotte dentro e fuori le scuole


Una premessa. Il contesto sociale ed economico attuale.

Da più di un anno l’Occidente intero è scosso da una crisi finanziaria che si ripercuote sempre di più sull’economia reale. La cosiddetta crisi dei mutui subprime, cioè la crisi che è derivata dalla cessione di crediti finanziari inesigibili provenienti dal ricorso a mutui immobiliari non garantiti ha un’origine sociale e ideologica: in sintesi l’ideologia di fondo sta nel ricorso al debito a tutti i costi, soprattutto nella parte più ricca del mondo (gli USA), ed è considerato un buon modo per garantire a se stessi un degno tenore di vita.
Le banche d’investimento e commerciali sono state il perno su cui ha agito quest’ideologia, che a conti fatti non ha più nulla a che vedere con il neoliberismo. Ricordiamoci che un mutuo è un debito netto nei confronti delle banche. L’insolvenza porta alla recessione del mutuo e all’acquisizione da parte delle banche dei beni mobili e immobili acquistati coi soldi garantiti dal mutuo.
La crisi dei mutui subprime non nasce però solo dall’insolvenza dei debitori a rischio, ma anche dal crollo verticale del valore di quegli immobili non garantiti, per cui le banche si ritrovano fra le mani titoli finanziari costosi a garanzia di valori immobiliari in caduta libera.
Possiamo affermare che le conseguenze di questa crisi stanno nel più grande pericolo mai vissuto dalla storia del capitale occidentale. Il timone del capitalismo è sempre stato anglofono (prima Gran Bretagna, da cent’anni circa USA). Oggi il capitalismo occidentale, indebitato fino al collo, deve accordarsi con le altre economie (Cina e India in testa) per sopravvivere, perché la qualità della vita in Europa e Nordamerica sta precipitando.
In più l’attuale leadership mondiale e quelle nazionali non sono in grado di dare risposte concrete alla domanda di sicurezza e stabilità economica: questi signori non hanno un progetto, non hanno un’idea concreta per farci uscire dal baratro che loro stessi hanno incentivato. Si potrebbe dire con ironia che l’Argentina è vicina.
Le conseguenze sociali sono molte: una volta messo in discussione il primato dell’economia e della politica occidentale, non è difficile fare altrettanto con i rapporti sociali che si sviluppano al suo interno. In una società che ha paura di diventare la serva del magnate cinese o indiano, la disgregazione sociale si trasforma in regressione sociale e la proposta politica tende a puntare su elementi di radicalità, sul polso duro nei confronti del più povero. È in atto una guerra fra “non più ricchi” e poveri, promossa dai governi di questi anni e che sta trasformando il nostro Paese e l’Europa intera in una società chiusa e razzista.
L’ingegneria politica istituzionale degli ultimi vent’anni ha costruito due leader indistinguibili nei connotati fondamentali, che portano avanti un modello di politica “leggera” volto a destrutturare tutti i legami sociali deboli, o meglio che partono dal tessuto sociale che non ha alcun potere.
Raramente c’è discordanza politica reale (oltre la caciara mediatica) fra Berlusconi e Veltroni, che anzi si trovano d’accordo su tutte le questioni cardine di politica estera (sostegno alla NATO, all’UE e alle guerre) e interna (sostegno alle banche e agli industriali, taglio dello stato sociale, lotta ai poveri e agli immigrati, nessuna progettualità contro la recessione e il caro-vita).
Si potrebbe dire che questi leader e i loro rispettivi partiti di cartone non sono più in grado di rappresentare il popolo. Berlusconi ha in mente una svolta autoritaria e la sta attuando con rigore, soprattutto per quanto riguarda la riforma della Pubblica Amministrazione e della Giustizia, mascherandola da lotta ai “fannulloni”, come ci ricorda il ministro Brunetta.
L’aggregazione studentesca di questi giorni ha quindi un significato che va oltre la semplice contestazione della manovra economica di Tremonti:

sfiducia nell’ideologia finanziaria alla base del nostro sistema economico
sfiducia nelle istituzioni e nei partiti politici, ridotti a scatole vuote
sfiducia nel futuro individuale di ognuno, che ognuno sa essere precario (non come forma contrattuale, bensì esistenziale)

Lo slogan “Noi non pagheremo la vostra crisi” riassume con chiarezza questi concetti.
Confrontiamo adesso il nostro contesto economico e sociale con quello del 1989-90, per evidenziare i tratti di continuità e di differenza con il movimento della Pantera.
Per un confronto fra la Pantera e oggi.

La Pantera è stato il primo movimento studentesco contro la privatizzazione dell’Università. Il suo strumento privilegiato era l’occupazione, che ha riguardato circa centocinquanta facoltà in tutta Italia per una durata di circa tre mesi. Le parole d’ordine erano spesso simili a quelle che si dicono adesso nei cortei e nelle assemblee, anche se va rimarcata qualche differenza.
La allora legge Ruberti introduceva l’autonomia finanziaria, cioè la gestione autonoma di ogni Università, che già allora favoriva il reperimento di fondi presso le industrie e le società private.
Gli studenti vi leggevano una trasformazione delle Università in senso classista, una spaccatura fra Nord (Università di serie A) e Sud del Paese (serie B), che non aveva e non ha un tessuto economico a cui rivolgersi per i finanziamenti; la fine del diritto allo studio e della possibilità di dare applicazione al dettato costituzionale in merito al raggiungimento dei più alti gradi di istruzione ai capaci e meritevoli privi di mezzi; in sintesi, crisi della democrazia universitaria, se mai vi era stata.
La Pantera si muoveva in un contesto molto diverso da quello attuale: la fine del socialismo reale significava la vittoria della democrazia, di una democrazia che si poteva rendere meno asservita agli interessi dei privati. Ma significava anche crollo definitivo dell’identità rivoluzionaria, dopo anni di agonia. Il ’68 e il ’77 erano molto distanti, gli anni ’80 (“gli anni di merda”, secondo Nanni Balestrini) avevano creato un buco della memoria storica collettiva, ritiratasi a vita privata.
Il ’90 arrivava dopo il “piccolo boom” dell’era Craxi, in un momento di fiducia nel mercato capitalista senza uguali; gli stessi studenti si definivano come la futura classe dirigente del Paese, e se andiamo a vedere quanti ex Panteristi sono entrati nei vari partiti di governo, possiamo solo dar loro ragione.

Intendiamo sottolineare in questo momento quella che ci sembra la differenza maggiore fra oggi e diciott’anni fa: il crollo del socialismo reale opposto alla crisi della finanza capitalista. Due scenari che più diversi non si può immaginarli, il primo di un Occidente vincente e in espansione, mentre oggi siamo impauriti dalla “sconfitta” e dalla recessione.
Vent’anni fa, anche per questo motivo, gli studenti scelsero di rimanere nelle Università, attuando un blocco ad oltranza che sarebbe impraticabile e controproducente nella dinamica attuale, incapace di trovare pratiche reali di confronto con il resto della società. Gli studenti volevano fare gli studenti, e niente più, consci di avere tutto il tempo per dedicarsi al resto della propria vita. Oggi è difficile districare l’Università dal resto del mondo, se non altro perché la stessa legge Tremonti è in realtà un taglio generalizzato a tutte le strutture portanti dell’ormai residuo stato sociale e non una riforma che organizza la vita dentro le Università a priori. La organizza solo a posteriori, coi pochi soldi che resteranno da spartire fra Università in deficit.
Il risultato è che gli studenti sono già precari, pur senza avere un contratto di lavoro. Si potrebbe definire “precariato esistenziale”, nel senso che la prospettiva del futuro personale non va al di là di qualche mese, del prossimo esame, della tesi; oltre il muro di gomma dell’Università c’è un deserto che a molti fa paura.
Altro elemento importante: nel ’90, in seguito al crollo del Muro di Berlino, il Partito Comunista italiano cominciava quella trasformazione lenta che avrebbe prodotto in serie il Pds, i Ds e il Pd, lasciando intorno a sé un nugolo di partitini (anche di vita breve) fra cui il più rappresentativo è Rifondazione Comunista, che ebbe una buona aggregazione all’indomani della Pantera.
Oggi non ci sono riferimenti partitici in vista, per quanto il Partito Democratico stia tentando di rincorrere il movimento studentesco in prospettiva governativa, con poco successo. Il ruolo dei giovani di Rifondazione appare marginale, soprattutto se lo paragoniamo al peso che ebbero i Giovani Comunisti nella Pantera, capaci di determinare alcune posizioni importanti che hanno gettato le basi per l’attuale fallimentare rappresentanza studentesca all’interno degli organi d’Ateneo.
La politica che si fa nelle assemblee è caotica, lenta, fuorviante, spesso sbagliata, ma è politica. Quella che si fa fuori dalle assemblee, negli atti di mobilitazione, è politica, che non ammette strumentalizzazioni.
La struttura organizzativa è però nel complesso molto più leggera rispetto a quella della Pantera, che aveva commissioni per ogni aspetto della vita dell’occupazione. Il movimento si sta dando soprattutto una struttura informativa e di mobilitazione, oltre che di approfondimento e di inchiesta sui temi afferenti al deficit universitario e alle legge Tremonti e Gelmini.
Oggi come allora appare determinante l’uso dei media, soprattutto di quelli strutturati e organizzati come televisioni e quotidiani.
Nel 1990 Repubblica si assunse la responsabilità di narrare quotidianamente il movimento, col risultato di venire boicottata dalle Pantere per palese parzialità.3 Oggi sicuramente gli studenti sono meno sprovveduti sul piano della comunicazione, non hanno paura della televisione, non se ne lasciano affascinare.
Oggi i media ufficiali insistono nel sottolineare che esiste anche una protesta di destra, guidata da Casa Pound a Roma e da Blocco Studentesco. Si porta il dibattito da un’altra parte, in modo molto più efferato rispetto a vent’anni fa.
Questo movimento, come la Pantera, ha rinunciato a ogni simbolo, bandiera, slogan proveniente dall’esterno del movimento, imparando più dalle lotte territoriali (Vicenza, Val di Susa, Chiaiano) che dai vecchi movimenti studenteschi, ed ha capito bene l’importanza e il valore dell’autonomia da ogni livello di decisione esterno all’assemblea.
Per questo motivo le organizzazioni neofasciste che puntano a intrufolarsi nel movimento rimangono corpi esterni, per quanto i media insistano a dare conto di una protesta (questa sì) parziale e faziosa, lontana dal sentire degli studenti.
Il movimento, in ogni caso, si sta organizzando sempre più tramite i blog, i migliori collettori di informazione del mondo, anche se è presto per dire quanto incideranno sul piano comunicativo reale.
Durante la Pantera lo strumento di comunicazione principale erano i fax, attraverso i quali la protesta si diffondeva in tutta Italia. Ci si teneva aggiornati anche tra le facoltà con il fax, ci si scambiava qualsiasi elemento informativo, dai documenti di programma alle vignette alle semplici cazzate.
Oggi i blog sono ancora molto seri, cominciano adesso a venir fuori le fantasie dei grafici e speriamo diventino sempre più prolifici.

La questione delle lotte

L’occupazione non è più l’unico strumento del movimento. Distrutto dalle riforme, reso inservibile dalla semestralizzazione dei corsi (se si blocca le lezioni per più di due settimane salta l’anno accademico), adesso è arrivato il momento di superare questa forma di lotta.
Non basta più rinchiudersi a produrre dossier e seminari informativi, la pratica delle lezioni all’aperto non è abbastanza conflittuale, per quanto sia un elemento di informazione alla cittadinanza.
Sta passando una concezione per cui basta avere alcune aule occupate nelle varie facoltà dove impiantare la base logistica della lotta. Ma la lotta deve essere portata all’esterno, tramite il blocage di tutto il territorio.
Le proposte su cui si trova maggiore condivisione sono infatti il blocco del traffico o delle ferrovie. Proposte molto radicali dietro a cui sta non tanto una posizione politica “estremista” di gruppo, quanto la riscoperta della semplicità dell’azione collettiva.
Oggi bloccare la stazione è l’unico segno che si può dare a un governo sordo e indolente, e che serve anche per portare la lotta fuori dall’ambito meramente accademico. Non c’è volontà di fare a botte, c’è solo la coscienza che l’unico modo per far ritirare il decreto è bloccare l’Italia. A tale scopo sarebbe utile coordinare un blocco nazionale (stradale o ferroviario) che dimostri anche la capacità di agire compatti in tutto il Paese.
Ma soprattutto si vuole dimostrare che essere studenti non vuol dire non essere persone, uomini e donne. Questo movimento, al contrario della Pantera (essenzialmente studentista), è costituito da uomini e donne che forse non hanno ben presente lo scenario che li attende nel prossimo futuro, ma che sanno di non poter raggiungere le soglie del benessere com’era successo alla generazione precedente.
Siamo un movimento di senza futuro, questa è la vera novità di questi giorni. Non dobbiamo raccogliere alcun testimone del passato. Costruiamo assieme il nostro futuro, costruiamolo subito prima che il castello di carte che ci pende sulla testa ci crolli addosso.

 
articolo, contributo, di un compagno in occupazione.
 
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