La morte di Roberto Melino due anni fa nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Empoli. Per non dimenticare.

A distanza di 2 anni dalla morte di Roberto Melino avvenuta, nel giugno del 2007, nel reparto di psichiatria dell’ospedale S.Giuseppe di Empoli pubblichiamo una toccante testimonianza di chi ha vissuto con lui il dramma dell’internamento. Ringraziamo il collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud di Pisa per averci inoltrato tale contributo. (artaudpisa.noblogs.org)

La morte di Roberto Melino.

13 giugno 2007. Reparto psichiatrico dell’ospedale di Empoli.

Si chiamava Roberto Melino. Ricordo che era giovane, simpatico e incazzato. Di una gentilezza squisita. Occhiali da vista, sovrappeso, più che parlare sussurrava, a volte era difficile capirlo, soprattutto quando il trattamento riservatogli era particolarmente pesante. Difficilmente terminava una frase senza interrompersi per ansimare. Nelle sue parole c’era lucidità assoluta, aveva lavorato per una cooperativa di servizi e sosteneva di avere subito ingiustizie dal direttore. Quantunque potesse avere avuto ragione, e questo non lo so, chi mai avrebbe ascoltato le sue parole ?

Quale forma di rivendicazione può risultare credibile quando viene daun internato nel reparto psichiatrico di un ospedale? Siamo diventati amici, anch’io gli parlavo delle ingiustizie subite. Due matti che solidarizzano su tematiche politiche e sociali. Naturalmente innocui, resi ancora più informi dai farmaci che ci somministravano. La sua inquietudine ammansita dalla gentilezza degli infermieri, ma soprattutto dalle bombe bioniche che lo demolivano. Non so quale sostanza periodicamente gli somministrassero, so che quando rientrava nella stanza in cui si fumava non era più lui. La sua vivacità era scomparsa e con lei la rabbia che lo contraddistingueva. Abulico, apatico, non parlava, non rispondeva. Rimaneva greve nell’aria il suo respiro sempre più affannoso. Ma non si rendevano conto di sparare ad un uccellino con un bazzoka? Mi regalò un orologio, non li ho mai portati, per compiacerlo lo misi al polso. Una sera, in un impeto di rabbia lo gettai. Fu un gesto di cui mi sarei pentito: quell’oggetto mi sarebbe stato un suo caro ricordo. La sera quando si coricava, a quanto capii, doveva assumere una posizione particolare che ne facilitasse il respiro. Quando ci salutammo l’ultima volta fu come sempre in maniera cordiale. – A domani -. Ma per lui non ci sarebbe stato un domani. La mattina dopo morì. Ci fecero stare seduti mentre davanti a noi l’agitazione saliva. I volti degli infermieri non riuscivano a non tradire la tensione, il via vai nella sua stanza diveniva sempre più frenetico, passò un’ora, forse due, non riesco a determinare il tempo. Inutili tentativi di rianimazione, noi seduti ed attoniti, noi innocenti spettatori di uno spettacolo che non doveva accadere. Con la certezza della morte lo spettacolo finì. Il suo respiro, quel respiro che anche nelle ore di veglia a volte assomigliava ad un rantolo, si era fermato. 

Il pianto della madre lacera l’aria del reparto, è struggente, verrebbe voglia di buttarla fuori. Sono sconvolto: l’avevo salutato la sera precedente, avevamo parlato, lo consideravoun amico. Non voglio più stare lì dentro, voglio uscire, mi concedono di farlo con un amico con cui pranzo. Non è una concessione che viene fatta facilmente, ma nell’eccezionalità del momento uno zuccherino al matto si può dare. 

Ai miei occhi era un ragazzo sensibile. Forse agli occhi di qualcun altro non era che un ammasso di cellule mal distribuite, con dei neuroni che scorazzavano in territori non ortodossi. Le domande rimangono sospese. Perché, viste le sue difficoltà di respirazione non è stato trasferito in un altro reparto?

Sarà stata compatibile la terapia farmacologica con le sue difficoltà respiratorie?

Saranno stati eseguiti preventivamente degli esami per verificarne la compatibilità?

 

Dai referti dell’autopsia potranno venire alla luce delle certezze? Come è possibile che io, che ero fuori di testa, riesca a fare una ricostruzione così lucida dei fatti e gli operatori a suo tempo non si siano accorti di ciò che stava accadendo?

La mia è una testimonianza opinabile, mi sono limitato ad esporre ciò che ho visto e che ho sentito, non ho prove che suffraghino ciò che poi, in realtà, mi viene da pensare.<

Volendo si possono ascoltare le testimonianze degli altri pazienti rinchiusi in quei giorni che non potranno che confermare le sue gravi difficoltà respiratorie.

Certo, anche loro sono matti come me, ma perché la loro parola dovrebbe valere meno di quella di uno psichiatra?

Anche gli psichiatri sono esseri umani, tutti sbagliano, magari con Roberto hanno commesso qualche errore. Non si può affermare né negare. Certo, non è piacevole il brivido di inquietudine che avverto quando ripenso a questa maledetta storia. Chiedo solo verità, verità oggettiva per un ragazzo di 24 anni che ho visto morire sotto ai miei occhi. Ma vivendo in questo paese una domanda sorge spontanea:

prevarrà la volontà politica di non approfondire?

Per me c’è solo una verità, mia, personale, che può essere non condivisibile.

Roberto non doveva morire.

Mardollo Gianluca, vivo da morire.

 

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