Omissione di soccorso come pena di morte per i migranti nel canale di Sicilia. Riflessioni sulla strage.

Secondo l’agenzia ANSA il gommone con cinque eritrei a bordo, soccorso la mattina del 20 agosto al largo di Lampedusa da una motovedetta della Guardia di Finanza, sarebbe stato “segnalato solo all’alba di oggi (20 n.d.r.) dalle autorità maltesi a quelle italiane impegnate nella missione Frontex, il pattugliamento congiunto del Mediterraneo”. Sempre secondo la stessa fonte “l’allarme è stato raccolto dalla centrale operativa di Messina del Gam, il Gruppo aeronavale della Guardia di Finanza, che ha subito allertato le motovedette di stanza a Lampedusa. L’imbarcazione è stata segnalata da Malta quando si trovava a circa 19 miglia dall’isola, al confine con le acque di competenza italiana per quanto riguarda le operazioni Sar (ricerca e soccorso in mare ndr).

Le motovedette hanno poi intercettato il gommone a circa 12 miglia a Sud di Lampedusa, al limite delle acque territoriali”. Conclude l’ANSA che “le autorità della Valletta non hanno invece specificato da quanto tempo il gommone, alla deriva da diversi giorni per mancanza di carburante, venisse «monitorato». Secondo un’altra agenzia Ansa del 20 agosto “le autorità maltesi hanno recuperato poco fa quattro cadaveri di migranti in mare. Verosimilmente si potrebbe trattare di persone che si trovavano sul gommone dei cinque eritrei soccorsi oggi dalla Guardia di finanza e arrivati a Lampedusa”. “Verosimilmente”, per l’ANSA, ma non per Maroni. Il ministro dell’Interno italiano sembra ritenere che su un gommone proveniente dalla Libia, che può contenere decine di persone, come confermato da anni di traversate e di sbarchi, vengano fatte imbarcare appena cinque migranti, oppure che il racconto di un operatore umanitario che ha visto gli stessi migranti in condizione scheletriche sia meno fondato di un rapporto di polizia che li descrive in buone condizione fisiche, tanto da fare ritenere poco credibile una traversata durata settimane.

Quanto siano attendibili i rapporti di polizia sulle condizioni di salute dei migranti lo abbiamo visto tutti lo scorso marzo dopo la vicenda – troppo presto dimenticata – del mercantile turco Pinar, lasciato derivare per giorni al limite della acque territoriali italiane a sud di Lampedusa, malgrado da bordo si lamentassero (oltre alla presenza del cadavere di una giovane donna raccolto in un sacco) le condizioni disastrose dei naufraghi che erano stati salvati da morte certa. In quella occasione solo l’arrivo a bordo di tre giornalisti smentì i bollettini finti dei medici chiamati dalla polizia e costrinse il governo a fare intervenire un elicottero di soccorso e a concedere l’attracco della nave in un porto italiano.

In molti altri casi, purtroppo, le tragedie avvengono senza testimoni, senza giornalisti scomodi, e senza neppure riconoscere la buona fede dei superstiti, al punto che si arriva a mettere in discussione persino quanto dichiarato dalle organizzazioni umanitarie che operano, in regime di convenzione con lo stesso ministero dell’interno, negli interventi di prima accoglienza. Almeno il precedente ministro degli interni del centro-destra riconosceva che per ogni imbarcazione che arrivava in Italia un’altra si perdeva trascinando in fondo al mare i migranti in fuga dalla Libia. Per Maroni invece conta soltanto il successo della sua politica di respingimento collettivo verso la Libia, e le testimonianze che potrebbero infangare questa immagine da “risultato storico”, vanno rimosse, destituite di fondamento, al punto che si ritiene necessario incaricare un Prefetto, non per controllare se le istituzioni dello stato si siano comportate nel rispetto delle leggi interne e delle Convenzioni internazionali, ma per demolire una verità che appare troppo scomoda. Una verità che comunque verrà fuori, quale che sia l’impegno del ministero dell’interno italiano. E in tanti si impegneranno nei prossimi giorni perché la verità non venga piegata alle esigenze di immagine del governo.

2. In attesa che le testimonianze incrociate, e soprattutto le denunce dei parenti delle vittime, molti eritrei profughi in Europa che attendevano l’arrivo dei loro cari, confermino la reale dimensione di questa ennesima “tragedia annunciata”, proviamo a cercare alcune spiegazioni di quanto avvenuto, sulla base dei nuovi ordini impartiti alle unità militari italiane dal ministero dell’interno dopo l’entrata in vigore, il 15 maggio scorso, degli accordi italo-libici, per i quali il Presidente Berlusconi si accinge a volare a Tripoli, il prossimo 30 agosto, in occasione del primo anniversario del “Trattato di amicizia”, in modo da festeggiare con Gheddafi i risultati della rinnovata collaborazione tra i due paesi.
Avevamo scritto nelle scorse settimane come il ministero dell’interno avesse modificato, a partire dal 15 maggio scorso, le regole di ingaggio delle imbarcazioni militari italiane impegnate nelle acque del Canale di Sicilia e delle conseguenze che le nuove regole sui respingimenti e sulla riconsegna dei naufraghi alle autorità libiche, neppure formalmente riconducibili al Decreto ministeriale 14 luglio 2003, normativa che prevedeva limitate ipotesi di “riconduzione delle imbarcazioni verso i porti di partenza”.

Avevano detto delle conseguenze che queste nuove regole di ingaggio avrebbero potuto avere sulla vita dei migranti in fuga dalla Libia, oltre che sulle attività dei pescherecci italiani impegnati in battute di pesca nelle acque internazionali del Canale di Sicilia, che adesso i libici rivendicano come area di loro esclusiva sovranità, fino al limite delle 73 miglia a nord delle proprie coste, dunque fino a circa 50 miglia a sud di Lampedusa. Al punto che sono già scattati sequestri di pescherecci di Mazara del Vallo sorpresi a pescare in acque che lo scorso anno erano presidiate dalla marina militare italiana. E minacce gravissime di sequestro, e lunga reclusione, sono state comunicate dal governo libico per quanti ci proveranno ancora.
Da anni denunciamo come le inchieste ed i processi a carico di autori di interventi di salvataggio, dal caso della nave umanitaria Cap Anamur del 2004 alla vicenda dei pescatori tunisini alla sbarra nel 2007, avessero drasticamente ridotto gli interventi di salvataggio da parte di unità mercantili, che nella maggior parte dei casi di avvistamento si limitavano a smistare l’allarme alla guardia costiera, senza intervenire immediatamente come le convenzioni a salvaguardia della vita umana a mare avrebbero imposto.

Ad Agrigento è ancora recente la condanna nel processo di primo grado di un comandante di un peschereccio che aveva gettato a mare e fatto annegare un migrante che invocava di restare a bordo di quella imbarcazione che avrebbe potuto, anzi dovuto, condurre verso la salvezza, verso un “porto sicuro”, come imposto dalle Convenzioni internazionali sul diritto del mare. In questi ultimi anni, malgrado episodi lodevoli di pescatori che si erano sostituiti persino ai mezzi militari in interventi di salvataggio in condizioni particolarmente avverse, continuavano ad aumentare le testimonianze di migranti che lamentavano il mancato soccorso da parte di unità mercantili che non avevano voluto rallentare il loro percorso.

3. Adesso però siamo di fronte ad un importante punto di svolta. Gli accordi bilaterali tra Italia, Malta e Libia, da una parte, e tra Malta e Libia, dall’altra, entrati in piena operatività nella primavera di questo anno, hanno avuto due conseguenze evidenti facilmente desumibili dalle sempre più rare cronache giornalistiche, conseguenze che non sarà facile smentire, neppure per il ministro Maroni, che vede depistaggi e speculazioni in verità che sono tanto scomode quanto inoppugnabili.
Per effetto degli accordi bilaterali tra Italia e Malta si è riconosciuto a Malta il coordinamento della zona SAR (Ricerca e soccorso) più vasta del Mediterraneo centrale, con la conseguenza che in questa stessa zona le unità militari italiane operano solo sotto coordinamento delle autorità maltesi, limitandosi di fatto a presidiare la fascia delle 20-30 miglia a sud di Lampedusa, “zona contigua” alle acque territoriali italiane, di specifica competenza della Guardia di Finanza.

A seguito degli accordi italo-libici (Il Protocollo operativo del dicembre 2007 e il Trattato di amicizia italo libico dell’agosto 2008), e soprattutto a seguito delle “intese operative” segrete intercorse tra questi due paesi dopo i viaggi di Ministri e funzionari di polizia tra Roma e Tripoli (e viceversa) nei primi mesi del 2009, ma anche dopo la “storica” visita di Gheddafi a Roma nel giugno scorso, le unità militari italiane, intendiamo della Marina militare, coinvolte nelle attività di “pattugliamento congiunto” con le motovedette italo-libiche (donate a Gheddafi dal governo italiano, battenti dunque bandiera libica, ma sulle quali dovrebbe trovarsi anche personale militare italiano), operano interventi di “respingimento collettivo” con la riconsegna alle autorità libiche di quanti vengono intercettati in acque internazionali, più spesso al limite delle acque territoriali di quel paese, considerata la ridotta autonomia operativa dei mezzi donati alla guardia costiera libica.

Il coordinamento degli interventi di pattugliamento congiunto è affidato ad una unità di coordinamento libica, d’intesa con le autorità italiane (come risulta dal Protocollo operativo Italia-Libia del dicembre 2007), mentre rimane sempre più evanescente il posizionamento e le reali funzioni delle unità aereonavali di FRONTEX, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne, da tempo impegnata nel Canale di Sicilia con operazione tanto dispendiose quanto prive di qualsiasi effettiva incidenza. Le cronache riferiscono che in questa ultima vicenda l’avvistamento del gommone sul quale si trovavano i cinque superstiti segnalati – guarda caso ‒ da Malta solo quando si trovavano già all’interno delle acque territoriali italiane (che con la zona contigua raggiungono le 24 miglia da Lampedusa), sarebbe avvenuto nel corso di un “pattugliamento congiunto” Frontex.

Allora, se così è stato, dal momento che le attività delle operazioni Frontex sono rigidamente documentate, anche per spiegare agli organi di controllo comunitari le ingenti spese che vengono addossate a tutti gli stati UE e dunque ai contribuenti europei, chiediamo che l’Agenzia Europea FRONTEX fornisca al magistrato di Agrigento che ha già aperto una inchiesta una documentazione completa sul “tracciamento” e sul “monitoraggio” del gommone prima dell’intervento di salvataggio. Tocca all’Agenzia Frontex, e non solo a Malta, chiarire questi aspetti assai rilevanti per l’indagine penale aperta dal Tribunale di Agrigento.

4. Quanto accaduto in questa occasione induce poi ad un’altra serie di riflessioni. In sostanza, Malta dovrebbe coordinare interventi di salvataggio ma non ha i mezzi per effettuare direttamente gli interventi di soccorso, FRONTEX non si sa bene che ruolo svolga dopo che gli stati rivieraschi hanno concluso tra loro accordi bilaterali, e poi non è stato mai chiarito a quale paese dovrebbero essere riconsegnati i migranti intercettati dalle unità militari europee targate FRONTEX, e sul punto si sono sempre accese polemiche tra gli stati che partecipavano alle varie missioni di questa agenzia (Nautilus, Poseidon etc.).

Alla fine, e forse anche in questo caso, si è sempre deciso volta per volta dopo trattative segrete tra i governi che hanno ritardato gli interventi di soccorso. Gli italiani hanno i mezzi per gli interventi di soccorso, ma questi ormai sono dislocati o immediatamente a sud di Lampedusa, per impedire sbarchi nell’isola (sbarchi che comunque, seppure in misura ridotta, continuano), o molto più a sud, in acque internazionali, a 30-50 miglia dalla costa nord-africana, per collaborare con le autorità libiche per respingere persone che nella totalità avrebbero diritto di essere condotti in un porto italiano o maltese, in base alle Convenzioni internazionali, perché “place of safety”, a differenza di Tripoli o di Zuwara, persone che comunque, nel caso di minori, donne e potenziali richiedenti asilo avrebbero diritto di essere ammessi sul territorio italiano, e dunque di entrare nelle nostre acque territoriali, o di restare sulle imbarcazioni battenti bandiera italiana in caso di salvataggio.

Altre unità militari aeronavali italiane sono coinvolte poi nelle operazioni periodiche FRONTEX che però non prevedono la riconsegna dei migranti intercettati in mare alle autorità libiche, e questo si ricava dal mandato dell’Agenzia per il controllo delle frontiere dell’Unione Europea, e dal relativo Regolamento del 2004, anche se in passato non sono mancati casi sporadici nei quali si denunciavano casi di respingimento verso la Libia da parte di unità militari impegnate in operazioni Frontex, che peraltro non hanno una specifica destinazione per interventi di salvataggio. E sul punto si ricorda ancora una vivace corrispondenza tra le istituzioni europee ed il Direttore generale dell’Agenzia che a sede a Varsavia in Polonia, e che si occupa di tutte le frontiere esterne europee, comprese le frontiere orientali e le frontiere aeroportuali.

Si può osservare a questo punto come gli autori del Regolamento Frontex quanto gli ideatori e gli estensori di questi accordi internazionali bilaterali, e la catena di comando che vi ha dato di attuazione, hanno praticamente ideato ed utilizzato l’omissione di soccorso, conseguenza diretta o indiretta del riparto di competenze così bene architettato, come una vera e propria “pena di morte” per i migranti che ancora si arrischiano ad attraversare il canale di Sicilia per fuggire dalla Libia e raggiungere Malta o la Sicilia, se non Lampedusa, blindatissima per salvare l’immagine turistica dell’isola, ma soprattutto i “successi storici” del governo italiano nella “guerra contro l’immigrazione illegale”.

Il complesso dispositivo militare costruito dall’Italia in collaborazione con la Libia, con Malta e con Frontex, per contrastare le traversate del Canale di Sicilia contempla negli ultimi mesi o il respingimento, oltre 1200 casi da maggio, o l’accoglienza, per quei pochi “fortunati” che riescono a varcare comunque il limite delle acque territoriali italiane (ricordiamo, non 12, ma 24 miglia a sud di Lampedusa), oppure l’abbandono in mare per giorni, per quanti siano riusciti a superare il primo sbarramento costituito dai pattugliamenti congiunti italo-libici, ma non siano riusciti ad avvicinarsi abbastanza alle acque territoriali italiane.

Non vogliamo pensare che tutto questo possa avvenire sotto il monitoraggio di autorità militari che ritardano fino all’ultimo gli interventi di salvataggio.
Ma questa volta, per il caso dei cinque eritrei che sono stati salvati poco a sud di Lampedusa, il dubbio che si possa arrivare a tanto è assolutamente legittimo. Per questi, ed altri sventurati come loro, giorni e giorni di inedia, fino alla morte, lontano dagli occhi e dalle cronache, inesistenti per una opinione pubblica europea sempre più distratta e xenofoba. Se i viaggi della speranza finiscono con la morte dei migranti, quale migliore effetto dissuasivo, per gli altri che ci volessero provare, si penserà ai piani alti di qualche importante ministero, un ragionamento che in questi ultimi mesi si è diffuso pericolosamente.

Se le autorità italiane che intervengono in acque internazionali sono coordinate da Malta, oppure operano all’interno delle missioni Frontex basate a Malta, basta che dalla centrale di comando di questo paese non venga trasmesso un tempestivo ordine di intervento e le unità militari italiane, se non saranno coinvolte nelle operazioni fantasma di FRONTEX, resteranno a pattugliare le acque attorno a Lampedusa per curare la tranquillità dei bagni dei buoni leghisti in vacanza nella loro isola prediletta. Una ragione in più, questa ultima tragedia, per rivedere il riparto di competenze tra Italia e Malta nel Canale di Sicilia, anche perché Malta non ha ancora aderito agli ultimi emendamenti della Convenzione internazionale sul diritto del mare, e quindi in materia di soccorso a mare si ritiene vincolata a regole diverse da quelle che invece valgono per l’Italia.
I “pattugliamenti congiunti” di FRONTEX (che comprende solo unità aeronavali di paesi appartenenti all’Unione Europea) non vanno comunque confusi con i “pattugliamenti congiunti” italo- libici, frutto dei recenti accordi bilaterali tra questi due paesi, ma possono facilmente sovrapporsi e confondersi pur prevedendo diverse regole di ingaggio.

Quello che è certo è che, a differenza degli anni passati, la vita dei migranti e l’accesso ad un “porto sicuro” (place of safety) dove è possibile fare valere una richiesta di asilo, non sono più priorità assolute. Non lo sono più per le autorità italiane, come confermano i respingimenti collettivi verso la Libia e non lo sono più neppure per le autorità maltesi, che in passato hanno negato persino l’evidenza per sottrarsi ai propri obblighi di accoglienza, rifiutando l’ormeggio a La Valletta o aiutando attivamente molte imbarcazioni cariche di migranti a proseguire pericolosamente verso la Sicilia. Le unità di FRONTEX nelle loro operazioni periodiche fanno base proprio a Malta e non è difficile pensare che anche loro, se operanti in zona SAR ( ricerca e soccorso) maltese, siano comunque sottoposte al “coordinamento” delle autorità maltesi. Con quali risultati non è solo questa ultima tragedia a testimoniarlo.

Di certo, e questo nessuno potrà smentirlo, se lo scorso anno nella fascia tra le 90 e le 60 miglia a sud di Lampedusa le unità militari italiane, soprattutto la Marina Militare e la Guardia Costiera avevano tratto in salvo decine di migliaia di persone poi ammesse in Italia alla procedura di asilo con esito in maggior parte favorevole, o che comunque avevano ottenuto uno status di protezione internazionale, come somali, sudanesi, eritrei, nigeriani, negli ultimi tre mesi, dopo l’entrata in vigore del Patto di amicizia italo-libico (e del protocollo operativo del 2007 che espressamente richiama), in quella stessa fascia di mare non si sono registrati casi di salvataggio, con successivo trasferimento in un porto italiano, ma numerosi casi di respingimento collettivo, vietato da tutte le Convenzioni internazionali e in particolare dal Protocollo n. 4 allegato alla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, Convenzione alla quale sia l’Italia che Malta sono soggette, anche quando si avvalgono della esternalizzazione delle pratiche di respingimento alle autorità libiche.

Presto, appena sarà possibile raccogliere tutte le testimonianze ed individuare i parenti delle vittime, arriveranno le denunce alle Corti internazionali, ma è possibile che nessun giudice penale italiano ravvisi in tutto questo un comportamento illecito sanzionabile anche all’interno del nostro ordinamento? 

di Fulvio Vassallo Paleologo, Università di Palermo. Tratto da meltingpot.org, 21 agosto 2009

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