L’ombra scura dei guerrieri

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Nelle tre interviste che seguono,
curate da Emilio Quadrelli e pubblicate da ‘Alias’ nel 2006, le parole
agghiaccianti di alcuni militari italiani impegnati in una delle “missioni di
pace” sponsorizzate dai nostri recenti governi. Le loro dichiarazioni, prive di
qualsiasi rispetto per la vita e per il dolore umano e piene di pregiudizi
razzisti, ben inquadrano il contesto in cui si muovono i “nostri ragazzi”,  e fanno riflettere, se ancora ce ne fosse
bisogno, sulla vuotezza della recente nuova esplosione di retorica militarista
in seguito all’attentato in Afghanistan.

 

 

[1- Intervista a un “professionista” con compiti
operativi in alcune missioni]

Tu hai partecipato ad alcune missioni di
pace. Con quale spirito le hai affrontate?

Intanto cominciamo col dire una cosa: in
qualunque modo la cosa può essere presentata, tutti noi sappiamo che quello che
ci aspetta è di andare in guerra. Come viene presentata è una cosa che, per
convenienza loro, i politici la raccontano come gli viene meglio, ma come vanno
sul serio le cose è tutto un altro discorso. Noi partiamo sapendo quello a cui
andiamo incontro e con chi e che cosa avremo a che fare. Sappiamo che, in ogni
caso, ci troveremmo di fronte un nemico spietato e barbaro che combatte per
distruggere il nostro mondo e la nostra civiltà. Forse sarebbe più giusto dire
che le nostre sono missioni di pacificazione piuttosto che di pace. Sì che sono
palesemente ostili verso tutto ciò che noi rappresentiamo e che non accettano
di stare al loro posto. Tu sai che quelli non sono come te, sono altre razze,
altre culture, altri modi di vedere il mondo, sai soprattutto che sono
inferiori a te ma questo non vuol dire che non siano pericolosi. Anche i topi e
gli scorpioni possono uccidere. La nostra superiorità, che ancora prima che
militare è morale e culturale, non è neppure in discussione, per questo non possiamo
che vincere, ma questo non vuol dire che le operazioni di pacificazione siano
una passeggiata. Anzi, questo l’ho imparato direttamente sul campo, la guerra
contro questo nemico è molto più dura di quanto onestamente mi sarei aspettato.
Il problema è che sono come delle bestie feroci e sono in grado di sopportare
condizioni a noi inimmaginabili. Me ne sono reso conto guardando a come reggono
agli interrogatori. Hanno la stessa resistenza al dolore delle bestie e questo
ti dice quanta differenza ci sia tra noi e loro. Sono capaci di bere litri di
acqua sporca come se fosse Coca Cola oppure lasciarsi scorticare lanciando dei
mugolii che mi ricordano quelli dei gatti quando da piccolo li prendevo e li
scorticavo vivi, ma senza piegarsi. Non si tratta di eroismo, perché loro non
sanno neppure cosa possa voler dire essere degli eroi, semplicemente il loro
grado di sopportazione è la palese manifestazione della loro somiglianza alle
bestie.

Eppure le immagini, specie dal Kosovo e
dall’Afghanistan, vi mostrano mentre fornite cibo, mentre costruite scuole,
ospedali e date aiuto alle popolazioni. Non è un po’ in contraddizione con
quanto affermi?

Quelle sono messe in scena per la stampa. Si
prende una zona non troppo devastata si radunano un po’ di civili che, in cambio
di qualche cosa, mangiare, due spiccioli, la concessione di qualche privilegio,
si prestano a recitare quelle parti. Quando in alcuni casi ci sono riprese in
prima persona e pezzi di intervista , si tratta di civili che lavorano per noi
e che la maggioranza della popolazione odia ancora più di noi perché li
considera dei traditori. Appena ne hanno l’occasione gli fanno la pelle e se
possono gli fanno anche rimpiangere di essere nati. Di civili ammazzati
immagino che ne leggi tutti i giorni, ma sentirai parlare solo di quelli uccisi
dai loro connazionali, non di quelli che facciamo fuori noi, anche perché se no
non ci vorrebbe un giornale ma un’enciclopedia.

Che rapporto c’è tra voi e i civili?

Intanto bisogna dire che, dal nostro punto di
vista, non esistono civili. Noi partiamo dal presupposto che quelli che ci
troviamo di fronte sono tutti nemici. Che ci sparino addosso, piazzino le bombe
o siano pronti a tenderci un’imboscata o lavorino per i terroristi dandogli
appoggi, informazioni, nascondendoli, procurandogli cibo e medicinali ha poca
importanza. Solo gli stupidi, o chi non c’è stato, può pensare che operiamo in
luoghi dove siamo amati e benvoluti, quasi che non aspettassero altro di averci
lì. Si vive in una situazione di odio reciproco dove è normale diffidare anche
di quelli che fanno le spie per te. Non è scontato che non stiano facendo il
doppio gioco. Perciò non si può parlare di un rapporto con i civili. L’unico
rapporto possibile è quello che c’è tra la forza che noi imponiamo e la loro disponibilità
o meno a sottomettersi e a riconoscerla. Forse gli unici civili che stanno con
noi sono gli uomini legati al governo. Questi, grazie a noi e agli interessi
politici che ci sono nel tenerli in piedi, si stanno facendo i sacchi. In
quelle zone ci sono traffici di tutti i tipi e i governativi si prendono la
loro stecca. Che tipo di traffici? Dipende dai posti. In alcuni prevale la
droga, specie in Afghanistan, nei Balcani armi, donne, operai. E poi c’è il
grande business degli aiuti umanitari, che finiscono nei depositi gestiti dalle
forze militari e poi sul mercato nero. Sono tutti traffici in cui i governativi
ci sguazzano. In cosa consiste il business degli operai? Dipende. Nei Balcani
si tratta di reperire forza lavoro a prezzi bassissimi per gli imprenditori che
si sono precipitati in quelle zone. C’è una richiesta fortissima e noi la
soddisfiamo con i rastrellamenti. Andiamo in una zona, portiamo via tutti
quelli in buone condizioni e li trasferiamo nei centri di raccolta da dove
vengono smistati. I centri sono gestiti a volte dalle polizie private degli
imprenditori o da gruppi criminali locali. In altre zone, soprattutto in Iraq,
la raccolta degli operai è fatta per metterli a lavorare per le industrie che
interessano agli inglesi e agli americani. Nell’area balcanica sono traffici
privati che gli organismi ufficiali conoscono e tollerano ma senza entrarci
direttamente, in altri posti sono invece direttamente gestiti dagli apparati.

Quindi questo comporta un modello di
relazione con le popolazioni civili particolarmente teso?

Intanto ti ripeto che non ci sono militari e
civili ma ci siamo noi e ci sono loro. Questa è la distinzione dalla quale devi
partire. Questa non è una guerra come quella dei film, questa è la guerra vera
ed è tra noi e loro. Non c’è niente che non riconduca alla guerra. Traffici a
parte, che sono delle cose che ognuno si vede un po’ per conto suo, d’altra
parte siamo lì anche per difendere il diritto alla libera iniziativa, cibo e
medicinali li usiamo per tenere sotto pressione le popolazioni e costringerle a
collaborare. Hai fame? Ti diamo delle scorte alimentari se ci dici tutto quello
che sai o hai sentito dire sulla guerriglia. Tuo figlio sta male? Lo curiamo ma
tu in cambio ci fai questo favore. Ecco, funziona un po’ tutto così. Poi quella
è gente non diversa dagli animali e al massimo li puoi trattare come un animale
un po’ addomesticato. Ma questa è una cosa che sanno tutti perché sono come gli
extracomunitari che ci sono anche qua.

 

[2 – Intervista a un militare specializzato in
operazioni di controguerriglia psicologica]

 In
cosa consiste la controguerriglia psicologica della quale, per altro,
ufficialmente nessuno ha mai sentito parlare?

Questo mi sembra abbastanza normale, semmai
dovrebbe far scalpore il contrario. L’idea che i non addetti ai lavori hanno in
genere della guerra è quella vista al cinema o alla tv, con i film della
seconda guerra mondiale. Da tempo quel tipo di guerra non esiste più. È normale
che almeno il 70% delle operazioni belliche siano oscurate o addirittura
ufficialmente non compaiano da nessuna parte. Si tratta di operazioni coperte,
così come tutta la conduzione della guerra è in qualche modo sotterranea. È
vero per la controguerriglia psicologica così come per tanti altri aspetti. Per
esempio le operazioni di bonifica. Raramente se ne sente parlare e, quando
capita, le si fanno passare per operazioni contro postazioni ribelli. In realtà
le battaglie ufficiali, quelle contro insediamenti della guerriglia, sono solo
una piccola parte di quanto avviene sul campo, anche se sono le uniche
continuamente mostrate. Questo perché, essendo le più vicine alla dimensione
classica della guerra, sono quelle più facilmente mostrabili all’opinione
pubblica. E anche queste, in ogni caso, sono mostrate in modo un po’ ridicolo
perché sono sempre preorganizzate. Le riprese non avvengono mai in diretta ma
sempre dopo. Così si può preventivamente selezionare il materiale video e, se
ci fai caso, non si vede mai il campo di battaglia a operazione conclusa ma
sempre in una fase iniziale. Altre volte si tratta di riprese del tutto
simulate dove qualcuno recita la parte dell’assaltatore e, senza essere
inquadrato, qualcuno spara qualche colpo fingendo di essere della guerriglia.
Tanto è vero che non si vedono mai le armi che vengono usate negli assalti.

Ti riferisci al fosforo bianco?

A quello ma non solo. Il fosforo bianco è quello
che ha fatto più scalpore semplicemente perché tutti ne sono venuti a
conoscenza ma per arrostire i terroristi i modi sono tanti, ovviamente non
possono essere mostrati. Anche questo, in realtà, è una parte del lavoro di
controguerriglia psicologica. Un lavoro che consiste nel rendere impensabile,
tra la popolazione, l’idea stessa di poter resistere o mostrarsi semplicemente
ostili. La controguerriglia psicologica ha lo scopo di annientare la volontà
del nemico. Non lasciargli speranze.

Al di là
di tutto, quelle in cui siete impegnati sono missioni di guerra a tutti gli
effetti che si potrebbero addirittura considerare come guerre totali?

Ma vedi, bisogna un po’ capire come funzionano le
cose altrimenti si finisce con l’avere un’idea del tutto sballata delle guerre
in cui siamo impegnati. Il primo problema che devi affrontare è far capire chi
comanda. Devi togliere a quella popolazione ogni punto di riferimento e
azzerare qualunque tipo di autorità, di qualunque tipo. Devi fargli capire che
la loro vita e la loro morte dipendono solo da te, che loro non sono niente.
Che tu puoi tutto e loro niente. Questa è la prima fase, quella dove devi agire
a tappeto. Non colpisci qualcuno perché è sospettato di qualcosa ma
semplicemente perché sta lì davanti a te. Tu sei il suo padrone e lui il tuo
servo. I modi sono tanti. La tecnica del gioco del bowling è uno di questi. Non
devi esagerare però come impatto iniziale dà dei buoni effetti. Vai in giro con
il blindato e ti scegli un obiettivo a caso e poi cominci a corrergli dietro. A
volte, dopo averlo fatto correre un bel po’ lo lasci andare, altre lo schiacci
e lo lasci spiaccicato come una formica. Questo è l’obiettivo. Nei tuoi
confronti devono sentirsi impotenti come degli insetti, capire che tutto
dipende da te e che loro non hanno alcun diritto e possibilità di opporsi. Un
altro sistema importante è la violenza verso le donne davanti agli uomini della
famiglia. Fare fottere la moglie, la madre o la sorella da 5-6 militari davanti
ai maschi della famiglia è un modo per fargli perdere completamente l’autostima
e farli regredire in uno stato catatonico dal quale non si riprendono più. Un
altro sistema è quello di mitragliare, mentre passi, senza alcun motivo i
passanti. Cioè, senza farla troppo lunga, la prima fase è quella del terrore.
Non è selettiva ma serve a far capire chi guida le danze. Poi ci sono quelle
maggiormente mirate. Un lavoro importante è la continua ridicolizzazione dei
loro simboli che, a seconda dei casi, possono essere nazionali o religiosi. Le
storie sul Corano, che ormai sanno tutti, sono una di queste tattiche. In
questo modo, colpendo i simboli a cui si sentono maggiormente legati, se ne
intacca la fiducia in profondità. Devi tenere presente che hai a che fare con
gente che non è come noi, è molto più facilmente impressionabile e molto più
attaccata a certe cose, sono un po’ dei creduloni e se gli fai rotolare nel
fango i simboli a cui loro danno tanta importanza, per loro è uno choc che li
annichilisce.

 

[3 – Intervista a S., una giovane donna militare
che aspira a diventare «forza combattente»]

Come nasce la tua vocazione per la
carriera militare?

Fin da piccolo sono sempre stata attratta
dall’idea di intraprendere una carriera alla quale, di solito, le donne non
aspirano o sono sconsigliate dal farlo. Dopo aver visto Soldato Jane questa
scelta mi si è materializzata davanti. Mi sono identificata in lei e ho
iniziato la mia personale battaglia per raggiungere quello scopo. Ho deciso di
entrare nell’esercito e mi sto preparando a coronare il mio sogno: diventare
effettivo di un’unità operativa.

Come consideri il veto che è ancora posto
alle donne nei confronti di questa professione?

Esattamente un’ingiustizia e per più motivi.
Soprattutto considero una contraddizione in termini negare l’accesso alle donne
a una professione solo perché donne, senza tenere minimamente presente che,
l’idoneità al combattimento,non può essere risolta in termini generali ma
particolari. È una scelta selettiva che deve tenere conto delle attitudini
individuali le quali, con l’appartenere a un genere piuttosto che a un altro
hanno ben poco a che fare. In più questo contraddice palesemente i valori per
cui il mondo libero si sta battendo e per i quali io credo sia fondamentalmente
giusto combattere senza tentennamenti. La guerra che giustamente stiamo
combattendo contro il terrorismo globale è condotta in nome di quanto ci è di
più caro: la libertà individuale, una società fondata sulla meritocrazia e
quindi sulla libera concorrenza di tutti gli individui e la loro concreta
possibilità a misurarsi nelle sfide della vita, una società non schiacciata in
basso ma che consente a ciascuno di farsi valere per ciò che è. Quindi impedire
a priori a una donna l’accesso alle unità combattenti lo trovo in aperta
contraddizioni verso tutto ciò in cui crediamo. Fortunatamente il buon senso
sembra che stia per prevalere e le selezioni saranno basate unicamente sui test
che ogni candidato dovrà affrontare. A quel punto penso di potermela giocare
fino in fondo.

Quindi, se tutto andrà per il meglio, tra
non molto potresti essere schierata in prima linea in zone di guerra. Con quale
spirito ti accingi a farlo?

Con lo spirito e la certezza di essere dalla
parte del giusto. Per combattere, dato per scontato la necessità di un’adeguata
preparazione e di una manifestata idoneità a reggere il conflitto sul campo,
occorre una motivazione. Una determinazione che non puoi certo trovare solo
nella consapevolezza di saper fare bene il tuo mestiere. Fare il soldato non è
come andare a fare l’impiegato in comune, non puoi non sentirti coinvolto in
ciò che fai. Quindi la motivazione che ti spinge a combattere finisce con
l’avere un peso fondamentale. Tu sai che vai a uccidere, perché poi è inutile
girarci tanto in giro, la guerra è questa: uccidere il nemico e non è una cosa
che puoi fare senza aver chiaro chi è e perché lo stai per annientare. Se così
non fosse, non saresti più un soldato ma un killer a pagamento e noi militari
non siamo certo degli assassini prezzolati. Quindi, questa non è una cosa solo
mia sia chiaro ma è ciò che nell’esercito si dice con molta chiarezza, l’idea
di contro chi ci battiamo è molto chiara e del perché ci battiamo ne siamo non
solo coscienti ma orgogliosi. Sotto certi aspetti, la guerra attuale, è un po’
la continuazione della guerra contro il comunismo. Anche adesso si tratta di
liberare il mondo da un modello totalitario che schiaccia gli individui e li
trasforma in semplice massa di manovra. Un nemico che vive e prospera, non
diversamente dal comunismo, sull’ignoranza e l’azzeramento dell’individualità
alla quale, per di più, aggiunge il fanatismo religioso e un modello di società
organizzato per caste. Tutto ciò contro il quale le società occidentali si sono
da sempre battute.

Quindi è un nemico a dir poco assoluto
nei confronti del quale non è pensabile un riconoscimento di pari dignità?

No questo mi sembra del tutto impensabile. La
guerra in corso non è condotta contro un esercito simile al tuo, a cambiare non
è il colore di una divisa ma due idee del mondo e della vita totalmente
diverse. Da una parte c’è la civiltà, il benessere, la libertà dall’altra
barbarie, fanatismo, tribalismo. È uno scontro tra due mondi. Da una parte
l’Occidente progredito, intraprendente e civile, dall’altra popolazioni il cui
sviluppo si è attestato a livello inferiore dando forma a società
obiettivamente inferiori alle nostre. Credo che, sulla base di quanto la storia
ha dimostrato, l’Occidente può vantare a pieno titolo una supremazia su queste
popolazioni e non può e non deve tollerare di essere minacciato da queste. In
gioco c’è il modello di vita occidentale, al quale non possiamo e aggiungerei
non vogliamo rinunciare in alcun modo.

Quindi contro questo nemico non ci sono e
non ci possono essere mezzi termini?

Senza voler scandalizzare nessuno anche se
ultimamente non sono in pochi a parlarne in positivo, penso che nei confronti
di queste popolazioni, non solo per la nostra sicurezza ma anche per il loro
benessere, il colonialismo non sia poi una soluzione così detestabile. A quale
stadio di civiltà sarebbero molti popoli se non avessero potuto usufruire dei
benefici del colonialismo inglese o francese? In quali condizioni sarebbero
precipitate intere aree del mondo se, anni addietro, gli americani con i loro
interventi a tutti i livelli non fossero intervenuti per bloccare l’espansione
comunista? Cosa sarebbero diventate queste popolazioni se le avessimo lasciate
da sole? Credo che queste sono le domande alle quali noi, e come soldati per
primi, siamo chiamati a rispondere. Allora mi chiedevi qual è il limite da
adottare nei confronti di questo nemico? La risposta non è complicata. Nessun
limite nei confronti delle forze ostili e al contempo un graduale inserimento
di quella parte di popolazione che si mostra più adatta o adattabile ai valori
del mondo occidentale. Credo che la nostra missione sia essenzialmente una
missione di civilizzazione ma non puoi civilizzare un posto se prima non hai
eliminato la teppa che lo infesta. E il nemico che combattiamo non merita un
riconoscimento e una stima diversa da quella che riserviamo al teppista di
strada. Per questo prima è necessario bonificare in profondità il territorio

A qualunque prezzo?

Non si possono fare le frittate senza rompere le
uova.

 

Emilio Quadrelli – da Alias (Manifesto del
sabato) – 16.12.06

Testo completo: Contropiano

 

A cura di Desmond G.

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