Il 25 ottobre scorso una quarantina di profughi somali, per la maggior parte rifugiati politici e in possesso di regolare permesso di soggiorno, hanno occupato un ex-albergo di proprietà delle ferrovie dello stato. Nella notte tra il 15 e il 16 dicembre un altro gruppo di migranti, circa 140 persone che erano state cacciate dal centro di accoglienza, a fronte dell’inutile tentativo di mediazione offerto dal Comune, che ha proposto un’ospitalità temporanea (tre mesi) per 90 persone, in una tendopoli (vi ricorda niente?), ha deciso di occupare una scuola abbandonata dal 2005.
J. Bonnot
Di seguito, un articolo del Manifesto, di Ornella Bellucci, che affronta la vicenda:
BARI – Per la seconda volta nel giro di due mesi
l’emergenza abitativa a Bari spinge un gruppo di profughi africani a
occupare uno stabile dismesso. Non in centro però, dove c’è il
Ferrhotel di Trenitalia occupato da 40 somali, ma a sud della città,
verso Poggiofranco. La notte tra il 15 e il 16 dicembre circa 140 di
loro, tra cui eritrei, sudanesi, etiopi, hanno occupato la struttura su
due piani che avrebbe dovuto ospitare la prima succursale del liceo
Socrate, di proprietà del comune, dichiarata inagibile nel 2005 e
perciò chiusa (salvo essere occupata di tanto in tanto dagli studenti
per denunciare l’assenza di spazi sociali).
Da qualche tempo a Bari le rivendicazioni per il diritto alla casa,
prima di essere poste dai senza tetto stanziali (migranti e italiani),
arrivano da loro. Sono tanti, ributtati in strada dopo il passaggio al
Cara, e costretti dagli accordi di Dublino a restare temporaneamente
nel territorio.
Gli occupanti dell’ex Socrate sono rifugiati politici, più alcuni
richiedenti asilo. Molti vengono da precedenti esperienze di
occupazione e sgombero a Milano. Sono organizzati. Gianni De Giglio,
impegnato sul territorio nelle lotte per la casa e aderente alla Rete
antirazzista, ricorda la vigilia dell’occupazione. «Il 15 dicembre
hanno organizzato un sit-in sotto il comune. Hanno passato la notte lì
in 40-50. Il giorno dopo una loro delegazione è stata ricevuta dal
prefetto e dall’assessore comunale alla Pace e all’Accoglienza, i quali
anziché fornire risposte concrete, hanno prospettato la possibilità di
una sistemazione temporanea in tendopoli. Loro hanno rifiutato e hanno
lasciato il presidio. Il pomeriggio si sono riuniti in assemblea, erano
quasi 150, e la sera hanno occupato». L’assemblea si è tenuta nella
sede della comunità eritrea residente a Bari, alla quale molti
occupanti fanno riferimento. La mattina dopo ne hanno convocata
un’altra, nella palestra della scuola. «Si sono contati, segnando i
nomi su un registro. E hanno eletto un comitato di occupazione». Nelle
assemblee si parlano tre lingue, perciò sono lente, ma molto
partecipate. Il comitato ha poi smistato i nuclei familiari nelle 28
aule disponibili. Nelle più grandi ci sono gli uomini, 7-8 per stanza.
A poche ore dalla prima assemblea al Socrate, il comitato di
occupazione ne convoca un’altra. «Per organizzare meglio il tutto, e
per decidere rispetto alla proposta arrivata dal comune», che intanto
in zona Fiera del Levante, lontano dal cuore della città, la tendopoli
l’ha allestita. Dice per i senza fissa dimora, premendo però perché
anche loro vi facciano capolino. Ogni tenda (sono sei, sette) può
ospitare fino a 15 persone, per un totale di 90 posti letto. La
tendopoli, gestita in collaborazione con la Croce Rossa, resterà in
piedi 3 mesi. Così «gli occupanti dell’ex Socrate hanno deciso di
rimanere uniti e compatti nella scuola».
La solidarietà del vicinato non è mancata. Una famiglia ha ospitato una
diciottenne col figlio neonato. Altri si sono mobilitati portando
coperte, cuscini, brande e taralli. Qualcuno ha dato loro parte dei
suoi risparmi. Continua De Giglio: «C’è la pescheria, che mette a
disposizione l’acqua». E poi c’è la Coop: «Lì vanno ai bagni, o se
devono comprare qualcosa» .
A differenza dei somali del Ferrhotel, molti parlano l’italiano.
Mentre, come loro, lavorano in nero. Puliscono i portoni, raccolgono
olive o quel che c’è nell’hinterland barese, ‘faticano’ come benzinai.
In questi giorni hanno incontrato gli occupanti dell’ex Socrate. Già
«la mattina dopo l’occupazione gli hanno portato parte delle loro
scorte. Tra queste, ramazze, scope, detersivi e pezze». Con alcuni
eritrei che prima dormivano nei pressi della struttura Trenitalia già
si conoscevano. Tra il Ferrhotel e l’ex Socrate ci sono circa 4
chilometri di strada. Molti occupanti del Ferrhotel quel giorno hanno
raggiunto la struttura a piedi.
All’ora di pranzo l’ex Socrate si svuota. Resta un presidio misto
all’ingresso, che compatta una trentina di occupanti. Gli altri si
riversano nelle mense comunali. Quelle ufficiali sono due, e non
garantiscono la necessaria assistenza. Ad esempio «la mensa del Caps,
gestita da un’associazione che ha avuto finanziamenti dal comune, ha a
disposizione 60 pasti giornalieri, però sono oltre 100 le persone che
ogni giorno vanno a chiedere da mangiare». Accanto alle mense comunali,
che nei giorni festivi sono chiuse, ci sono quelle delle chiese, che
sono più numerose.
Testai è uno degli occupanti. Ha 23 anni, è eritreo. Nato e cresciuto
ad Adi-Keih. È arrivato in Italia nel 2008. «Prima vai in Sudan, fai
tutto Sahara e poi Libia, e da Libia to Italy». È la prassi. Poi c’è
l’altra, altrettanto consolidata: «Un sacco di persone in Sahara
muoiono, un sacco di persone. Spesso furgoni si rivoltano e i morti
restano a terra». Anche Testai li ha visti, anche lui ha pagato per
quell’orrore. Poi l’ultimo tratto del viaggio, dalla Libia a Lampedusa.
«Su barca, tre giorni», 318 persone. Verso un’Italia che è un nuovo
temporaneo orizzonte.
Nel centro di Lampedusa Testai viene trattenuto una settimana. Poi è
spedito al Cara di Bari in aereo, con altre 45 persone. Ha lasciato
l’Eritrea mesi fa, «perché c’è problemi con Etiopia». E se anche i due
paesi non sono in guerra, «però governo di Eritrea è dittatoriale, e
quindi si non obbedisce tu vai galera». Ha due fratelli Testai. Il più
grande, per aver disobbedito, sta scontando 10 anni di carcere. «Io ero
soldato per governo. Quando tu diventi soldato, per due anni non ti
fanno vedere famiglia. Dopo io ho disertato, perché non volevo fare più
il militare, non volevo più essere soldato». Ha dovuto lasciare il
paese: «In Eritrea era difficile salvare vita, a causa del governo». La
commissione gli ha riconosciuto l’asilo politico, e ora è in attesa dei
documenti. Quelli di cui è in possesso sono provvisori. Testai è un
caso Dublino. Tempo fa ha tentato di lasciare l’Italia ma è stato
fermato in Inghilterra, identificato e rispedito al Cara di Bari. Prima
di occupare l’ex Socrate si arrangiava in strada. Oggi non riesce a
trovare lavoro. «Io ho bisogno di lavoro, ma come faccio se non ho
casa, come faccio?». Gli chiedo cosa pensa dell’occupazione. «Non
avevamo scelta», dice, «comune ci deve permettere di avere casa».
Saba ha 37 anni. Viene da una città dell’Eritrea che si chiama
Menderiera. Vive in Italia da 5 anni e 5 mesi. «In mio paese c’è
guerra, sempre guerra. Prima con Etiopia, poi con Tigray. Poi ora le
corti impediscono di fare vita normale». Quando ha lasciato l’Eritrea
Saba aveva 16 anni. È arrivata con la famiglia in Sudan, dove ha
lavorato per 17 anni. «In casa di arabi, pulire, lavare, stirare,
tutto». I genitori e la sorella sono tornati in Eritrea mentre Saba ha
proseguito per l’Italia. «Io scappata da Eritrea perché c’era guerra.
Scappata da Sudan perché cominciava guerra. E poi io non sta bene con
sudanesi, no paga bene; poi io cristiana, loro musulmani». Saba scappa
dal Sudan. «Con macchina, tutto Sahara. Loro ti porta e tu paghi. Venti
giorni senza acqua, senza mangiare. Tanti morti». Dopo il Sahara la
Libia. Dove Saba ha cercato lavoro, perché non aveva i soldi per
proseguire il viaggio. Senza però trovarlo. I soldi glieli ha prestati
un’amica e si è imbarcata per l’Italia. Saba non ha provato il carcere
libico, ma suo nipote, che occupa l’ex Socrate, sì. «No sta bene in
Libia. Adesso lui finito due anni carcere, senza motivo». Un altro
ragazzo che è lì, Bereket, lo stesso. «Quando io entrato in Libia da
Sudan la polizia mi porta in carcere con altri. Perché documenti nostri
non validi in Libia». Bereket è stato nel carcere di Seikit due mesi e
due settimane. Erano 100 persone in un recinto di ferro. «I poliziotti
picchiare sempre, giorno e notte. Con mani, così, anche con bastone,
cinture, con calci, con tutto». Si ferma: «Ci passa piatto con cibo
sotto cancello. Da uno mangia 7 persone, e da bere acqua e sale. E
poliziotti ci deruba, ci toglie tutto».
Fars è etiope, di Adis Abbeba. Diciannove anni a gennaio e sei mesi
scontati da minorenne nel carcere libico di Binkasi. «Polizia dice: se
ci date soldi, vi facciamo uscire. Quando io uscito, 100 denari
pagato». E non è stato semplice. «Loro ci faceva uscire per lavorare e
poi veniva e prendeva soldi». Il lavoro era in strada. «Con carriola,
trasporto spesa libiani e loro dare mancia». Fars ha dovuto mettere
insieme molte mance per tentare di arrivare alla quota. «Polizia prende
un poco ogni giorno. Quando facevo più soldi li rubava, e ne vuole
ancora». Ma Fars non poteva farcela. E allora come ha saldato? Sorride
Fars: «Un giorno vado a lavorare e io non tornare». Bereket, invece,
«io pagato 700 denari polizia».
Gli intervistati sono rifugiati politici. Al momento non lavorano. Saba
non è in condizioni, è stata operata da poco a un femore: «In campo,
persona straniera viene e tira calci. Forse vuole lavoro». Neppure
Bereket riesce, e neanche Fars: «Io da quando uscito da Cara sono 8
mesi aspettare casa».
Chissà che pensava di trovare in Italia Fars, in fuga dall’Etiopia.
Chissà se si era rappresentato come possibile una convivenza con degli
eritrei: «Sì però prima c’è guerra con Eritrea, ora no». Ma nel suo
paese non c’è libertà. «Io Oromo», gruppo etnico maggioritario in
Etiopia. «Io fare parte di partito Oromo, come Italia partito di
sinistra. Partito Oromo lotta per libertà», perché in Etiopia «ancora
no puoi parlare, no puoi denunciare crimini governo». Anche sua madre
era militante del "partito Oromo", cioè del Movimento federalista
democratico Oromo, accusato di sostenere il Fronte di liberazione
Oromo. «Poi la sera venuta polizia, dice: domani tu vieni ufficio». Era
sospettata di aver fornito sostegno economico al Flo, e quindi al
terrorismo. «Ma lei non è andata, no lasciato me, polizia poteva
uccidermi, e noi scappati insieme». L’accusa di terrorismo è molto
frequente in Etiopia. Viene usata dalle autorità per mettere a tacere
qualsiasi forma di opposizione o di critica alla persecuzione degli
Oromo.
Sono andati in Sudan, per un mese. La madre è rimasta lì per una
malattia che le impediva di muoversi, Fars ha proseguito il viaggio. Ha
attraversato il deserto, poi la Libia e infine è giunto in Italia.
Prima a Lampedusa e poi al Cara di Borgo Mezzanone, nel foggiano. Ma
poiché era ancora minorenne è stato affidato al centro di accoglienza
San Giuseppe, gestito da una onlus. Si trova a Borgo Tre Santi, a
Cerignola. «Al centro noi 50 ragazzi: etiopi, albanesi, ghanesi,
eritrei, kosovari. Se fai il bravo, ogni 15 giorni puoi uscire. Oppure
no». Quando ha compiuto 18 anni è stato trasferito dal San Giuseppe al
Cara di Borgo Mezzanone. Lì Fars ha fatto richiesta di asilo politico e
ora è rifugiato.