L’ELETTROSHOCK ? E’ UNA TORTURA !


È in questi giorni partita una petizione dal Congresso Nazionale della
Società Italiana di Psicopatologia, appoggiata dall’AITEC (Associazione
Italiana Terapia Elettroconvulsivante), rivolta al ministro della
salute
Livia Turco per aumentare i centri clinici autorizzati a praticare la
terapia elettroconvulsivante o elettroshock, che in Italia sono oggi
nove, sei pubblici (Brescia, Oristano, Cagliari, Brunico, Bressanone,
Pisa) e tre privati (Verona, Bologna, Roma), per arrivare ad almeno un
servizio per ogni milione di abitante in tutte le regioni.

Più in generale l’obiettivo è quello di ridestare il consenso popolare
su una pratica dannosa e brutale da considerarsi una tortura, come le
testimonianze di chi ha subito l’elettroshock documentano tristemente.
Le modifiche nel trattamento (anestesia totale e farmaci miorilassanti
che impediscono le contrazioni muscolari, in precedenza diffuse a tutto
il corpo con la conseguente rottura di denti ed ossa) riescono solo a
camuffare gli effetti esteriori ma non ne cambiano la sostanza: una
scarica di corrente elettrica costante di 0,9 ampere (la cui tensione
varia fino ad un massimo di 450 volt, collocandosi solitamente sui 220
volt) sui lobi frontali o sull’emisfero cerebrale non dominante -TEC
monolaterale- che provoca un’intensa crisi convulsiva durante la quale
il cervello aumenta il suo metabolismo, il flusso e la pressione
sanguigna.

Ciò provoca danneggiamenti alla barriera emato-encefalica e
all’equilibrio biochimico del nostro cervello. A seguito del
trattamento
si riscontrano molti e gravissimi effetti collaterali, quali rottura di
vasi sanguigni cerebrali, regressione della capacità discorsiva, gravi
e
ampie perdite di memoria, persistenti emicranie, problemi
cardio-circolatori e riduzione della massa cerebrale.
La validità scientifica del metodo ancora oggi non convince, o meglio
non
esiste: i meccanismi di azione della TEC non sono noti; l’unico dato
certo, scoperto da Cerletti nel 1938, è che scariche elettriche
adeguate
producono un coma epilettico reversibile (quando il soggetto sopravvive
o viene rianimato con successo).

Per la psichiatria «l’ipotesi
originale di Cerletti che l’effetto terapeutico di questa metodica
fosse legato alle convulsione celebrale generalizzata è, fino ad oggi,
l’unico dato documentato da numerose ricerche cliniche e pressoché
universalmente accettato» mentre «rimane irrisolto il problema di come
la convulsione cerebrale provochi le modificazioni psichiche» e «non è
chiaro quali e in che modo queste modificazioni (dei neurotrasmettitori
e dei meccanismi recettoriali) siano correlate all’effetto terapeutico»
(G. B. Cassano, Manuale di Psichiatria).

Ma per chi subisce tale
trattamento i danni cerebrali sono ben evidenti e possono essere
rilevati attraverso autopsie e variazioni elettroencefalografiche anche
dopo dieci o venti anni dallo shock.
La terapia elettroconvulsivante viene portata avanti da psichiatri di
impronta organicista che, con i loro metodi autoritari, invasivi ed
offensivi della dignità umana, compromettono seriamente la salute di
milioni di persone, prima prescrivendo farmaci e poi, quando questi non
producono nel paziente i risultati sperati, suggerendo l’elettroshock,
che giova alla “cura” della depressione e della tristezza nella misura
in cui provoca vuoti di memoria, apatia e demenza.

La stessa genesi e storia della terapia lascia perplessi: l’idea venne
nel 1938 a Ugo Cerletti e Lucio Bini dall’osservazione di maiali
anestetizzati con una scarica elettrica prima di essere condotti al
macello. Nel corso del ‘900 migliaia di internati furono sottoposti
alla
lobotomia elettrica con grande entusiasmo degli psichiatri che
operavano
nei manicomi poiché con essa gli “agitati” erano più tranquilli. Ma
l’elettroshock non rimase chiuso nei manicomi: venne utilizzato come
tortura e punizione durante la Grande Guerra e servì da ottimo
strumento
di repressione del dissenso durante gli anni Settanta, in Italia come
in
Argentina. Negli anni Ottanta quando ormai questa pratica brutale
sembrava destinata al disuso, venne rivalutata e iniziò il suo
riutilizzo a partire dagli USA.

L’APA (Associazione Psichiatrica
Americana) creò appositamente nel 1986 una task force per la raccolta
di
tutte le sperimentazioni di nuovi metodi elettroconvulsivanti che
condussero a risultati favorevoli alla reintroduzione dell’operazione
elettrica equiparata, nella sua nuova forma, ad un intervento
chirurgico, o meglio, di psicochirurgia.

La spinta più grande alla
ridiffusione dell’elettroshock non è però da attribuire a progressi
medico-scientifici, quanto a fattori puramente economici, visto che le
compagnie di assicurazione statunitensi pagavano dopo il settimo giorno
di ricovero solo nel caso in cui i pazienti necessitassero di
interventi
chirurgici.
In Italia gli studi favorevoli alla sua reintroduzione vengono
recepiti
nel 1996 da una circolare dell’allora Ministro della Sanità R. Bindi
che definiva l’elettroshock «presidio terapeutico di provata efficacia»
consigliandone l’utilizzo.

Il Comitato Bioetico Italiano bocciò
l’elettroshock nelle strutture pubbliche permettendolo solo in quelle
private convenzionate. L’effetto principale della circolare fu quello
di trasformare l’elettroshock da prestazione ambulatoriale a
prestazione chirurgica con il conseguente aumento del costo (il ticket
passò da 70.000 £ a 500.000 £ più i costi per le prestazioni della
clinica convenzionata); a presiedere l’intervento oltre allo psichiatra
troviamo ora un medico anestesista e tre infermieri.

Ci teniamo a ribadire che nonostante le moderne vesti di intervento
chirurgico, l’elettroshock rimane uno strumento di tortura, una
disumana
violenza, un attacco all’integrità psicologica e culturale, oltre che
un grande trauma, per chi lo subisce. Insieme ad altre comuni pratiche
della psichiatria come il TSO (trattamento sanitario obbligatorio) e
l’ASO (accertamento sanitario obbligatorio), l’elettroshock è un
esempio
se non un’icona della coercizione e dell’arbitrio esercitato dalla
psichiatria e dalla società nei confronti di chi non riesce o non vuole
normalizzarsi.

 

Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud -Pisa

Collettivo Antipsichiatrico Violetta Van Gogh -Firenze

Collettivo Telefono Viola Milano T28

Collettivo Antipsichiatrico di bergamo

aderiscono al comunicato:

Collettivo Antipsichiatrico di Modena

 

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