In questi giorni di guerra a Gaza Israele ha fatto di tutto per evitare il diffondersi di un’informazione libera che potesse mettere anche solo in discussione l’ossessione della "guerra giusta". Il delirio di onnipotenza ha tappato la bocca anche ai media "amici" ovvero a quei media che nei propri paesi fa di tutto per dire e non dire. Un bell’articolo emerso su Peacereporter di Naoki Tomasini denuncia solo alcune delle gravi violazioni del diritto a sapere, a conoscere.
"La verità è sempre la prima vittima di ogni conflitto. È un luogo
comune che è valso per tutto il ‘900 e trova conferma anche in questi
anni di guerre futuristiche, in cui la propaganda e la censura giocano
un ruolo sempre più importante. L’aggressione israeliana contro la
Striscia di Gaza, però, evidenzia come la frattura tra i fatti e i
resoconti sia sempre più grande. La verità su quel che accade è in
tutto e per tutto un terreno di scontro tra Israele e Hamas, ma anche
il prezzo di questo conflitto parallelo viene pagato dalla popolazione
civile della Striscia. "La verità è stata raggiunta da tre nuove
vittime: la decenza, la compassione e la vergogna", commenta Dimitri
Reider, un giornalista israeliano piuttosto atipico.
Tra
le vittime della battaglia nella Striscia dei giorni scorsi si contano
un giornalista algerino e un cameraman della televisione palestinese,
Ihab al Wahidi, noto per essere stato il preferito di Arafat. Altri
reporter sono stati arrestati, ma soprattutto molti, molti ancora, non
hanno potuto fare il proprio lavoro perché Israele ha bloccato
l’accesso alla Striscia. Sabato mattina l’ex ministro dell’Informazione
di quello che era il governo palestinese di unità nazionale, Mustafa
Barghouti, ha condannato l’attacco israeliano che ha distrutto le
Jawwhara media towers, che ospitavano 20 redazioni di tv e canali
satellitari. Barghouti sostiene che questi attacchi fossero voluti, per
"distruggere gli aquipaggiamenti che consentono alle immagini dei
crimini israeliani nella Striscia di Gaza di raggiungere il mondo".
"Aprite Gaza ai giornalisti" è anche l’appello lanciato ieri da
Reporter Sans Frontieres, che definiscono la chiusura del territorio
"indifendibile e pericolosa", perché si tratta di "eventi che
riguardano tutti". Di "severa violazione della libertà di stampa" ha
invece parlato l’Associazione per la Stampa Estera in Israele, che
contesta la mancata applicazione del verdetto della Corte Suprema di
Gerusalemme, che aveva affermato il diritto dei suoi membri a recarsi a
Gaza. Una decisione poi bloccata dal ministero della Difesa del governo
Olmert.
"L’uso
della vecchia scusa dell’Area Militare Chiusa per impedire la copertura
mediatica dell’occupazione della terra palestinese è una pratica che va
avanti da anni" ha commentato il celebre reporter di guerra, Robert
Fisk. Sull’Independent, Fisk racconta come Israele usò lo stesso
sistema anche durante l’offensiva a Jenin, nel 2000, con risultati
disastrosi: "Impossibilitati a controllare la verità con i propri
occhi, i reporter citarono i palestinesi che parlavano di un massacro
israeliano, che Israele impiegò anni a negare. Quell’attacco fu davvero
un massacro, ma non della scala che si era inizialmente creduto". La
stessa dinamica si starebbe ripetendo in questi giorni a Gaza, con il
risultato che sono le voci palestinesi a emergere. "Gli uomini e le
donne che sono sotto attacco aereo e dell’artiglieria – continua Fisk –
raccontano le loro storie come non erano mai stati in grado di fare
prima, senza il ‘bilanciamento artificiale’ che il giornalismo
televisivo impone sui resoconti. Forse questa diverrà una nuova forma
di copertura mediatica, ma l’altra faccia della medaglia è che a Gaza
non ci sono occidentali che possano controllare i recoconti di Hamas".
A
compensare l’imprecisione delle informazioni dalla Striscia, ci pensa
però la stampa israeliana e, in generale, il clima ostile verso la
libera informazione che si respira in Israele. "Giornalisti stranieri
sono stati arrestati e a diversi forum online è stato richiesto di
rimuovere le conversazioni considerate ‘pericolose per la sicurezza e
il morale’ dall’Idf (l’esercito israeliano, ndr.)" spiega ancora
Dimitri Reider, il quale cita anche un parlamentare israeliano che
aveva proposto di "chiudere al Jazeera e al Arabiya, per via
dell’effetto demoralizzante che hanno sulla popolazione
araba-israeliana". Reider sostiene che la stampa israeliana asseconda
questo clima con "secchiate di autocensura", ad esempio la notte in cui
Israele distrusse la scuola dell’Unrwa, uccidendo molti bambini: "i
resoconti israeliani erano dominati dalla morte di un soldato
israeliano. Sfogliando i siti si trovava tutto sui suoi amici, la sua
famiglia, i suoi hobby e quanto gli piaceva stare nell’esercito. Solo
scendendo a fondopagina si poteva constatare che ‘I Palestinesi
sostengono che molti bambini sono rimasti uccisi in una scuola’, con il
sommario che subito sparava: ‘Idf: miliziani si nascondevano
nell’edificio". Israele – conclude Reider – non è la Corea del Nord.
Sull’altra sponda dell’incubo ci sono certi monumenti del giornalismo,
come Gideon Levy e Amira Hass, e qua e là un po’ di spazio viene
concesso anche alle opinioni critiche, o persino antisioniste. Ma
l’effetto sul pubblico medio è sconfortante: oltre il 93 percento degli
israeliani ritiene che i media siano troppo liberali e dovrebbero
invece essere più leali. Oltre due terzi sostengono completamente
l’intera operazione, mentre i commenti sui forum abbondano di odio
genocida".
Proprio Amira Hass, la giornalista israeliana di Haaretz che fino al
2005 è vissuta a Gaza, in questi giorni ha denunciato gli editori del
suo giornale, accusandoli di avere cambiato il titolo di un suo
articolo in modo da distorcere il resoconto e renderlo più
sensazionale. L’articolo parlava dei collaborazionisti uccisi da Hamas
durante le prime ore dell’offensiva di terra. Nel titolo dell’articolo
modificato, apparso sull’edizione in ebraico del quotidiano, si parlava
di "Hamas che approfitta della situazione a Gaza" e di "eliminazione di
Fatah". Nella versione inglese si faceva riferimento a "dozzine di
collaborazionisti uccisi da Hamas", mentre la Hass aveva verificato che
solo alcune tra le 40 o 80 persone uccise dai miliziani erano sospetti
collaborazionisti. "Modifiche irresponsabili e non professionali" ha
dichiarato all’agenzia palestinese Maan la giornalista, che conclude:
"E’ una scelta deliberata, dei giornalisti israeliani, dei media
israeliani, dei consumatori dei media. É la decisione di non sapere".
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