Expo 2015: Milano città svenduta al cemento

L’Expo del 2015, dedicata all’alimentazione, sarà trasformata in una colossale operazione immobiliare. I “cacciatori” milanesi di cubature immobiliari, che si definiscono developers, stanno spargendo su 8 milioni di metri quadri di aree dismesse dall’industria manifatturiera che non c’è più, una selva di grattacieli firmati da architetti di fama mondiale, i cosiddetti archistar.
Quei grattacieli servono a distrarre l’attenzione da quel che germoglia intorno: quartieri selvaggi, simili a quelli che hanno assediato la Roma dei palazzinari.
 
Dalla Bovisa all’ex Ansaldo, da Porta Vittoria a Porta Nuova – Garibaldi-Repubblica, dal Portello a Montecity-Santa Giulia, sono venticinque i grandi progetti, lottizzati tra i gruppi immobiliari con le immutabili regole del manuale Cencelli – tot a me, tot a te – che stanno cambiando lo skyline meneghino insieme a quelli del potere e delle ricchezze immobiliari d’Italia. Tutto questo sarà nell’area della vecchia Fiera, si chiama CityLife, un affare da due miliardi, che prima ancora di partire è costato 523 milioni di euro, il prezzo pagato alla Fondazione Fiera per i 23 ettari (che diventano 36 con le aree limitrofe) acquistati dalla cordata immobiliar-assicurativa vincente.
 
Domenica 11 maggio 2008 una nuvola di polvere oscurò i palazzi novecenteschi che si affacciano nella zona dell’ex Fiera. Un’imprecisata carica di esplosivo ha sbriciolato in pochi secondi il Padigione 20, 230 mila metri cubi di calcestruzzo, per far luogo al mitico Central Park meneghino, che certificherà il Nuovo Rinascimento di Milano. È lì che sorgeranno non uno, ma tre grattacieli. Il più alto, di 209 metri firmato dal giapponese Arata Isozaki, il secondo di 170 metri dall’irachena Zaha Hadid e il terzo di 140 metri, quello a forma di banana che ha ferito il buongusto persino del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, progettato dall’americano Daniel Libenskind.
 
Intorno 140 mila metri quadri di edilizia residenziale e 100 mila di uffici, il tutto in cinque mega-blocchi di altezza variabile tra i cinque e i venti piani, protetti da un sistema di "torri di guardia del quartiere".
Per inorridire già da adesso basta passeggiare intorno ai plastici esposti in uno show-room che i padroni di CityLife, cioè Ligresti, i Fratelli Toti della Lamaro, gli stessi immobiliaristi che spadroneggiano a Roma, insieme a Generali e Allianz hanno voluto a piazza Cordusio, cuore della Milano bancaria. O, ancora meglio, farvi mostrare il rendering, cioè le simulazioni al computer, come consigliano Luigi Offeddu e Ferruccio Sansa nel loro libro "Milano da morire", dove con ironia raccontano visioni paradisiache di grattacieli scintillanti in un cielo di purissimo azzurro. Come a Milano si vede non più di dieci giorni l’anno.
 
Ma Ligresti chi? Sì, proprio quel Salvatore Ligresti. Si dice che a volte ritornano, ma nonostante le condanne di Tangentopoli, la prigione, l’affidamento ai servizi sociali, don Salvatore, come lo chiamano, non se ne è mai andato. Oggi controlla buona parte dei sei principali progetti immobiliari milanesi, che valgono 7 miliardi di euro: non solo CityLife, ma anche Porta Nuova-Garibaldi. E non c’è a Milano chi non corra a baciare la pantofola del finanziere pregiudicato, originario di Paternò, provincia di Catania.
È cambiato soltanto l’azionista di riferimento politico in quell’intreccio di mediazioni opache tra mattoni e finanza, tra affari e politica. Oggi è quella Milano della politica senza qualità, sospesa tra postfascismo, berlusconismo, leghismo e integralismo affaristico ciellino.
 
Le solite facce, i soliti nomi. A Porta Vittoria si sono fermati i lavori dopo l’arresto di Danilo Coppola. A Santa Giulia, sud-est di Milano, area Montedison, e a Sesto San Giovanni nell’area Falck, sta affondando un altro furbetto. È Luigi Zunino, esposto con le banche, soprattutto Intesa-San Paolo, per 2 miliardi.
Chi più chi meno, tutti lavorano con la cosidetta "leva finanziaria", che in pratica vuol dire i soldi delle banche. Sui 7 miliardi finora investiti sulla carta, sei, circa l’85 per cento sono di Intesa-San Paolo, Unicredit, Popolare di Milano, Monte dei Paschi, Antonveneta e Mediobanca, mentre la Banca d’Italia giudica corretta una quota del debito non superiore al 70 per cento rispetto al totale e un’equity del 30 per cento, cioè di investimento di tasca propria.
 
Bisognerebbe piuttosto occuparsi del destino delle decine di migliaia di metri cubi di uffici sfitti e dei nuovi che stanno per arrivare sul mercato invece che del cemento fresco. Bisognerebbe pensare una città che sia vivibile, attraversabile con i mezzi pubblici, una città che accoglie, che gioca con i bambini, che da spazi verdi, strutture agli anziani…ma questo non è neanche lontanamente nei progetti degli speculatori immersi nel rifacimento delle nostre città. E’ forse l’ora di pretendere il nostro “diritto alla città” che vogliamo?
 
Fonte: La Repubblica, 26.11.08
 
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